Due chiacchiere e un caffè.

” Te lo dico in tutta onestà, più ci penso e più mi rendo conto che facevo un lavoro di merda, nella mia vita ne ho cambiati diversi, facendone di ogni durante gli anni universitari. Nessuno era avvilente, frustrante, demotivante come quello, ad un certo punto mi ero anche convinta di aver preso quel posto di lavoro come sfida personale, sai bene che non amo perdere o essere sconfitta da qualche evento, quindi mi dicevo, NO NO VAI AVANTI NON PUOI MOLLARE, HANNO DATO QUESTO RUOLO A TE, SIGNIFICA CHE CREDONO NELLE TUE CAPACITA’. Ma quante cazzate mi pompavo nella testa”.

“Quini pensi sia questo il motivo per cui non hai mollato prima? Voglio dire sei rimasta li diversi anni, alla lunga un lavoro così logora no?”

“Assolutamente si, anzi ti dirò, se non fosse stato per quello stronzo, falso e arrogante che mi ha letteralmente rubato il ruolo, facendomi diventare un surrogato di sua assistente, molto probabilmente sarei rimasta ancora ed ancora, Se dovessi incontrarlo di nuovo, cosa che mi auguro non capiti mai, dopo una scarica di parolacce, alla fine concluderei con un grazie, non lo mangi quello? Posso?”

“Certo certo, finiscilo pure, ma fammi capire, cos’era che ti ha tenuto li tutti quegli anni? Non trovavi altro lavoro?”

“No no anzi, c’erano giornate in cui, presa dallo sconforto, cercavo un’alternativa, e sai cosa? Ho fatto un paio di colloqui ma il fatto è che io mi alzavo tutte le mattine sorridente e felice, era un lavoraccio si, ma io in quell’ufficio avevo trovato l’oro. Non so fino a che punto riesco a spiegarti a parole cos’eravamo noi, davvero che merce rara. Parlando personalmente l’80% del lavoro lo fanno i colleghi, ed eccoci arrivati al nodo della questione, sono stati loro la mia ancora di salvezza.”

—– “Vi porto altro ragazze?” ——.

“Per me no grazie” – “Anche io a posto così, ci porti il conto per favore?”

“Ok i colleghi li hanno tutti più o meno, ma avresti potuto trovarne altri validi in qualsiasi altro posto no?”

“Dici? Io non credo. Io arrivavo presto in ufficio e ognuno di noi aveva una particolarità che alle 8 del mattino era già stampata in faccia, c’era lui, appena arrivato, con i postumi di un campari in più della sera prima, nonostante fosse solo martedì, sorrideva e mi raccontava: si si dico sempre questo è l’ultimo, invece alla fine arrivi a casa spaccato in due, che hai perso il conto di quanti ne hai bevuti! Ma io sono uno di compagnia lo sai! Se c’è da bere si beve. Poi c’era l’altro che arrivava stanco, occhio rosso e appesantito, ho bisogno subito di un caffè diceva, si perché aveva perso il conto delle notte insonni con il suo bambino. Prendere il caffè con lui era una delle mie cose preferite, ci raccontavamo le novità e ridavamo insieme di quello che era successo il giorno prima al lavoro con quei colleghi che amavamo decisamente poco. Poi arrivava uno degli ultimi, in ritardo ed arrabbiato perché la sera prima giocando a beach la caviglia aveva dato ancora problemi, e le sue performance o erano perfette oppure non avevano senso di essere. Su uno dei tavoli in ufficio c’era sempre un vassoio di brioches perché il più mattiniero di noi ce le portava, e ne mangiava almeno due. Quando qualcosa andava particolarmente male e me lo si leggeva in faccia, ecco arrivare una notifica che diceva: ti vedo male oggi, tutto ok? Potrei perdere una giornata raccontandoti un briciolo di ognuno di loro. Eravamo proprio sincronizzati, dove non arrivavo io c’era uno di loro e viceversa, ogni giorno avevo computer e telefono intasato di cose da fare e già alle 8.10 del mattino la pressione alle stelle. Ogni mail, chiamata o rottura di palle necessitava del supporto di qualcuno di loro, e io avevo imparato a chi chiedere aiuto in base alla richiesta che arrivava. Mi sentivo in una giungla, piena di sorprese e animali feroci, ma noi eravamo una squadra, nessuno affondava o veniva attaccato, perché il branco ci proteggeva. Eravamo insieme. E quanto si rideva.. tantissimo, ci divertivamo con poco, un po’ per non soffocare dentro quel vortice di lavoro malsano che si era creato, un po’ perché il nostro feeling era speciale. Non passava giorno in cui non fossi grata per quelle persone, per quelle anime passate li e fermatesi. Sarà che eravamo più o meno tutti della stessa età, puliti, senza mire di rivalsa o scalate sulle teste degli altri…”

“Beh no questo no, perché se lui non ti avesse pestato i piedi scavalcandoti..”

“Certo si, una mela marcia c’era, marcissima, mi spiace averlo vissuto sulla mia pelle, ma ci sta eh? voglio dire, valeva la pena disilludersi da quell’isola felice in cui mi trovato, discostando la mia attenzione dal lavoro che mi stava mangiando, se no sarei ancora la!!”

“Poi? sarà stata dura ripartire da un’altra parte immagino”

“Tantissimo, staccarmi da loro, quelli buoni chiaramente, è stato quasi come crimpare un cordone ombelicale, ho pianto tantissimo, non mi sono mai capacitata della fine di quel periodo, nonostante tutta la mia vita, non solo quella lavorativa ne abbia giovato. Cioè cambiare lavoro è stata la cosa più salutare fatta negli ultimi anni, ma questo non toglie l’amore che avevo verso quelle persone, amici, si li chiamo amici perché quello erano. Mi sento di essermi portata via un pezzetto di ognuno, e viceversa. Alla fine poi il tempo ha messo al suo posto ogni cosa, eravamo speciali insieme, ma l’avidità sgretola. Ci siamo spostati tutti, o quasi, non credo gli ultimi tardino molto a fare lo stesso, si è pur sempre creata una ferita che non si sta cicatrizzando, e la necessità di aria fresca è arrivata per ognuno di noi”

“Offro io, se no paghi sempre tu.. dai per favore”

“Figurati, è da un’ora che parlo e che mi ascolti, il minimo è pagarti la colazione!”

“Insomma quindi alla fine hai capito che doveva andare così?”

“Ma non so dirti che morale estrapolare da questa esperienza di vita, certo una cosa l’ho imparata, eravamo un caso raro, quindi non ho più lasciato nessun collega, arrivato dopo, avvicinarsi così tanto a me, nonostante abbia metabolizzato che è stato un passaggio della vita, la sofferenza per quella rottura, per quello strappo, è stata fortissima”

“Beh mai dire mai, magari troverai altri colleghi con cui condividere la vita allo stesso modo”

“No ma non fraintendermi, i colleghi attuali che ho sono fantastici, collaborativi, simpatici, ma sono colleghi capisci cosa voglio dire? Non mischierò mai più le cose. Non ne vale la pena. Per loro era diverso, per loro ne è valsa la pena, non capitano tutti i giorni persone così. Anzi, persone così non capitano, sono li per un motivo.”

“Non ci credo, ti vengono ancora gli occhi lucidi?! Dopo quanto? 4-5 anni?” – “Dovevano essere speciali davvero”.

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(Racconti e quattro chiacchiere)

Conformarsi, anche solo in apparenza.

Potevo essere tante cose nella vita, pensiero comune a tanti credo. La mia vita ben incanalata nelle attività comuni, ha però questo aspetto goliardico direi del voler scrivere “cose”. Storia ormai nota la mia, letta e riletta, in tantissimi libri di VERI SCRITTORI, chi fa il cassiere, il fioraio, il panettiere, l’operaio, che allo stesso tempo, impronta e mette le basi per la sua vera passione, scrivere. Per farlo ci sono vari passaggi comandati ai quali mi sto attenendo scrupolosamente:

  • leggere, sempre, tutto: dalla ricetta della panna cotta, al quotidiano di provincia, fino ai libri sul Bosone di Higgs, perchè mi hanno sempre insegnato che leggere solo ciò che ci piace, non può arricchirci degli stessi contenuti di ciò che spesso non ci appartiene,
  • studiare: ho investito, sto investendo ed investirò sempre tanto tempo per la mia “formazione” come scrittrice. Possiamo anche possedere un talento, ma se non impariamo a coltivarlo, potrebbe anche non fiorire mai. Pensiamo ad Harry Potter, se non avesse studiato, come avrebbe potuto imparare a gestire tutta quella magia ereditata dai genitori?!
  • scrivere: e in questa attività ci voglio includere varie forme di scrittura; quella personale sotto forma di articoli, qui contenuta all’interno del blog; pagine e pagine di racconti, romanzi, poesie che un giorno dovrò decidermi a sottoporre ad occhi diversi dai miei; ma anche la scrittura conto terzi, ossia “lo scrivere per”. Ecco oggi sarà proprio su questo ultimo punto che voglio soffermarmi, il lavoro di “stage formativo”, o la più comune gavetta.

Uno scrittore non praticante deve imparare fin da subito che dovrà prestarsi a praticare per terzi per adempiere alla sua parte di formazione, accettando critiche e scendendo sempre a compromessi. Scrivere romanzi o libri che possano vendere milioni di copie dovrebbe essere il mio obiettivo finale, e lo è, ma credo, in tutta onestà, che uno scrittore possa definirsi tale, quando riesce a giocare così bene con le parole da poter intavolare un qualsiasi argomento con la padronanza di chi ne conosce ogni aspetto.

Il mondo della scrittura è fatto di domanda e offerta come qualsiasi campo. Chi domanda chiede un pezzo di tot battute da inserire in un giornaletto locale, un sito di vendita diretta, un depliant informativo, una brochure promozionale; chi offre deve riuscire a produrre il testo nel mondo più accattivante possibile, strizzando le parole nello spazio limite consentito, per poi attendere il verdetto finale.

L’aspetto più difficile di tutto questo lavoro, dopo il riuscire a farsi pagare in modo onesto, è quello di accettare le critiche, almeno per me. Mi sono ritrovata spesso a scrivere di tematiche che sentivo mie, lasciando trasparire quel livello emozionale che va oltre il consentito, ricevendo sempre indietro il lavoro perché troppo articolato, altre volte ho dovuto apportare modifiche a quello che il mio flusso di pensieri voleva esprimere. “Questa frase non può piacere, trova un modo più polite per dirlo”, oppure “il tema è quello giusto, ma bisogna sistemare tutto il contorno”; non so se riesco a spiegare come diventa difficile per me strappare quella parte così mia e personale dal foglio, per poter scrivere quello che viene richiesto e comandato sulla base di battute, spazi e contenuti.

Mi sto lamentando di come il mercato mi richieda di uniformare la mia scrittura alla massa generale, so bene che se voglio scrivere devo anche sapere fare questo, abbassare la testa e decidere di farmi violenza per oltrepassare il confine. Mi sto lamentando degli effetti che ha su di me la critica esterna; considero la scrittura un atto fatto di anima, scrivere è come vivere in una dimensione parallela; com’è possibile che qualcuno possa, in maniera obiettiva e neutrale, giudicare qualcosa che viene da così lontano e profondo? Ecco questi sono scogli, ostacoli insormontabili per me.

Quando scrivo sento l’adrenalina scorrere veloce nelle vene come se stessi vivendo momenti indimenticabili e intimi che solo io posso sentire. Riportare ogni singola parola su un foglio, sapendo che poi dovrò rimettermi a qualcuno che in quel momento sta bevendo un caffè alla scrivania, annoiato dal mondo e dal numero di paginette che ogni giorno riceve, pronto a sbuffare di fronte all’ennesima composizione scritta che chiede una possibilità, è davvero avvilente e frustrante.

I miei lavori contengono sempre una parte autobiografica, che sia un momento o un sentimento, vederli bocciati è un po’ come se fossi io ad essere respinta da quel mondo, sapendo che se mi fossi obbligata ad essere più o meno di così avrei potuto fare il passo oltre.

Oggi il mio lamento è così, confusionale, come il mio animo, i miei capelli e i miei occhi. Zero formule magiche per la conclusione o la scelta di direzione, l’unica certezza è che scrivere resterà sempre la mia vendetta verso un mondo che mi ha troppo spesso bocciato per il mio mancato conformismo.

“Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto” – (Isaak Babel’, Guy de Maupassant, 1932)

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L’inquietudine dello scrittore.

Vivo giornate lisce, come se lo specchio d’acqua in cui mi trovo non sentisse un filo di vento, placido e silenzioso. Sono le mie preferite, accompagnate da luce e serenità.

Bellissima questa pace, ma sono grata alla vita per avermi regalato la sensazione di trepidazione e batticuore che a tratti passa a trovarmi. Ho scoperto il suo nome da poco, dopo aver letto un libro di Carver, che entrerà con tutti i meriti del caso a far parte dei miei preferiti, un vademecum per me. Non sapevo che nome dare al mio bisogno di mettere sul foglio le parole, di incastrarle in un perimetro definito, un bel recinto che possa tenerle a bada togliendole dalla mia anima. Dopo aver letto quel libro ho capito che un nome ce l’ha, si chiama inquietudine, ed è il mio flusso, il mio istinto, il mio nero su bianco.

L’inquietudine vive con me da quando sono nata, questo è certo, le sono stati dati i nomi più svariati, talvolta mi hanno intimato ad abbandonarla, io stessa ho fatto il possibile. Sono contenta che il tempo e la vita mi abbiano fatto capire come una caratteristica così preziosa non sia da perdere, senza non sarei io, l’inquietudine è il mio talento, lasciarla parlare è la mia cura più grande.

L’inquietudine è quella forza che mi traina verso una meta, perché sento di potermi chiamare completa solo quando ci arriverò. Una volta arrivata, farò l’ennesimo grande respiro perché ancora non sentirò quella completezza che speravo, quindi dovrò proseguire.

L’inquietudine è quella sete che mi porta ad essere più svelta per arrivare alla fontana prima degli altri.

L’inquietudine non mi da pace, ci sono giorni in cui è sopita altri in cui mi infuoca l’anima e vuole uscire, deve.

La medicina mi chiama “soggetto affetto da attacchi di panico”, io mi definisco un personaggio inquieto che vuole scrivere i suoi stati d’animo. Senza questo impeto ci sarebbe il “non moto”, quindi il fermo, la sedentarietà, la morte.

Mi spavento quando rileggo quello ho scritto nel mood “inquieta”, quando le lascio la libertà di esprimersi. La mia inquietudine comunica così. Abbiamo concordato insieme, io e lei, di supportarci e prendere aria ad intervalli, il mio corpo è la nostra casa, alcuni momenti io esco per lasciarle campo libero, alle volte invece sono io che mi godo “la casa” in solitudine senza la sua presenza. Fondamentale sempre è la buona convivenza.

No non c’è pazzia in quello che sto dicendo, semplicemente quando scrivo tolgo il freno e lascio che sia lei a guidare. Le prime volte non mi fidavo, ora si, la mia inquietudine ha bisogno di me e io di lei, non mi farebbe mai del male.

Gli scrittori, e tra questi mi ci metto anch’io, si devono spostare in un’altra dimensione quando scrivono, io la definisco “anima”, per spiegarla in parole povere, direi una dimensione dove la ragione non può dettare legge o stabilire regole. Potrebbe far paura, si potrebbe, ma la mente è un congegno così intricato che è impossibile entrare senza spaventarsi, i vicoli ciechi sono sparsi ovunque.

Non tutto quello che scrivo richiede la presenza della mia amica inquietudine, ci sono momenti in cui è richiesta la logica e la ragione, altri in cui devo ricoprire il ruolo di scrittrice informativa, il punto in comune in ogni forma di scrittura io scelga è la parola, una dopo l’altra, vanno depositate sul foglio e hanno la capacità di variare la sensazione del lettore nel percepire quello che io sto trasmettendo. Non è bellissimo? La comunicazione di emozioni, una qualsiasi parola buttata su un foglio, potrebbe essere completamente spenta per un soggetto, e dare un brivido per un altro, tutto dipende dall’anima.

Ho necessità di scrivere ogni tanto questo tipo di narrazione, come se dovessi spiegare il lavoro che sto facendo, per giustificare alcuni miei lati troppo ermetici. Scrivere richiede il coinvolgimento di personaggi creati ed inventati, di mondi, situazioni, emozioni, parliamo di un grandissimo lavoro, troppe personalità che si incontrano e scontrano, sarebbe impossibile mantenere la lucidità mentre lo si fa, anzi sarebbe controproducente.

Il numero di pagine che ho scritto in ogni quaderno, libro o foglio sono veramente infinite, devo decidermi a fare il passo, ma la mia inquietudine non è ancora pronta per un giudizio. Lei, come la maggior parte delle emozioni, non può accettare di essere studiata ed esaminata.

Quello che non conosciamo o non riconosciamo come “normale” solitamente tende a far paura, alle volte i mostri più grandi siamo noi con i capelli in ordine e il trucco perfetto.

L’inquietudine è il mio personaggio preferito.

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“Ma noi dove abbiamo sbagliato”?

Qualche giorno fa si parlava tra mamme, nelle modalità consentite dalla zona arancione ovviamente, sui comportamenti dei figli, in particolare stavamo disquisendo su una bambina che dovrebbe avere all’incirca 5 anni. “Nonostante i suoi due genitori, lei è veramente un tesoro, non solo, riordina tutta la stanza dei giochi senza che le venga chiesto”, “mi chiedo come abbiano fatto due genitori così ad insegnarle tante cose”. Detto questo, cadde il silenzio tra noi, tutte prese nel ragionare sul fatto che questi due genitori, per noi poco piacevoli, siano riusciti nell’intento a cui tutte stiamo aspirando.

Ed ecco che sorge spontanea la domanda nel nostro io interiore: “ma noi dove abbiamo sbagliato?”

Quando io e Fabio eravamo solo due semplici fidanzati innamorati della vita e dal weekend soprattutto, ci dedicavamo quasi ogni sabato, alla classica cena fuori, senza figli l’ho già specificato?! Ci piaceva tantissimo cercare quei piccoli locali con pochi tavolini, luci basse, silenziosi ed accoglienti. Ricordo una sera, la presenza di una famiglia, due giovani genitori con il figlioletto di forse un paio d’anni. Il bambino chiaramente annoiato dal posto urlava dimenandosi sul suo seggiolone, mentre la mamma e il papà cercavano di reprimere il suo impeto sottovoce. Il mio sabato sera si stava sgretolando e rovinando a causa di quel bambino, quindi mi sono alzata, ho chiamato il cameriere e ad alta voce, ho chiesto di cambiare sala. Li per li non mi sono minimamente preoccupata di come quei due genitori potessero sentirsi a seguito del mio gesto, nella mia testa era tutto lecito, la mamma ed il papà non erano in grado di domare un figlio tanto irrequieto e la colpa era solo loro.

“Quando saremo genitori noi sarà tutto diverso” dicevo sempre a Fabio, solo ora che sono diventata mamma ho capito il primo fondamentale insegnamento: i figli non hanno il bottone di spegnimento. Ovunque si trovino ora quei due genitori spero sentano le mie scuse più profonde e sincere, sono stata una grandissima stronza. Nella mia testa era tutto ben chiaro, sapevo come avrei cresciuto un eventuale figlio e come sarebbe diventato, regole e comportamenti dal risultato ottimale. Lei, lui sarebbe diventato il prodotto perfetto, educato, affettuoso q.b., composto, silenzioso.. bla bla bla. Non avevo ancora capito quale sarebbe stata la formula magica, ma bastava trovarla, se le altre mamme non ci erano riuscite era solo per mancanza di voglia, io sarei stata una bravissima mamma.

Ripenso con tenerezza a questa fase della mia vita, davvero pensavo che bastasse dire “amore basta” per ottenere il risultato? Non sto certo dicendo che mia figlia stia crescendo senza regole, semplicemente dico che crescere figli non è come acquistare un mobile ikea con il manuale in dotazione.

Mia nonna diceva sempre una frase, che ora vi scriverò in italiano, ma lei usava il nostro dialetto ed era tutto bellissimo: “ogni bambino nasce col suo fagottino”, solo adesso ho dato il peso giusto a queste parole. Ci sarà certamente una percentuale di noi genitori nel nostro bimbo, ci sarà anche una percentuale del mondo esterno, ma anche una parte solo sua, sulla quale potremo avere la meglio solo alcune volte.

Come si fa quindi ad essere bravi genitori? Se un tempo pensavo che tutto dipendesse da come mio figlio si fosse comportato nel pubblico, oggi che ho davvero una figlia, ho cambiato totalmente idea. E’ molto importante che i nostri bambini imparino come vivere con gli altri, ma c’è una cosa che ha un peso molto più grande: la loro felicità, vorrei che mia figlia fosse felice, vorrei che si sentisse pronta per le sfide della vita e fiduciosa nelle sue capacità. Se riuscissi in questo credo di potermi chiamare brava mamma, alla fine del percorso. Spero senta sempre il nostro amore anche se mentre fa i capricci cerchiamo di calmare le sue urla.

Ecco io mi sono data questo come scopo, a dir la verità poi, se esco a cena neanche la prendo su, anzi, la porto dai nonni, ogni tanto è bene riassaporare momenti di vita in cui non si è solo la mamma o il papà, sapendo che questo non pregiudica le nostre capacità di “bravi genitori”.

Ci saranno sempre genitori con figli irrequieti fuori a cena, bambini che non riordinano la cameretta dei giochi, genitori esausti e scoraggiati, solo ora che sono mamma mi sento di dire che nessuno va mai guardato con gli occhi del giudizio, piuttosto con quelli della comprensione.

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Anche gli uomini possono piangere.

Il mio è un blog prettamente di tematiche “femminili” questo perché mi prendo la libertà di parlare di cose che conosco, eviterei argomenti diversi che potrebbero innescare discussioni, lo devo già fare per lavoro, qui ho scelto di evitare, dedicandomi solo ad argomenti che hanno segnato la mia pelle.

La società patriarcale, maschile, in cui viviamo è un aspetto di cui ho scritto spesso perché ha ampiamente modificato la mia e nostre vite e i nostri usi, ma stavo dimenticando di parlare di un’altra vittima, oltre a noi donne, che alle volte, sta forse peggio, sto parlando dell’uomo.

L’uomo è stato ed è tuttora danneggiato costantemente dalla società, se noi siamo stereotipate in un modo, loro lo sono in un altro; facciamo qui di seguito una lista delle caratteristiche basic che DEVE possedere un uomo, per definirsi tale, secondo il non detto delle nostre abitudini:

  • un vero uomo deve essere sicuro, spavaldo, testa alta, sempre pronto a guardare negli occhi l’altro, mai abbassare la guardia,
  • deve essere, sempre pronto a reagire, non può lasciarsi sfidare senza incalzare a sua volta,
  • è un uomo non emotivo, non prova emozioni, quanto meno quelle sinonimo di debolezza o sofferenza,
  • è un uomo invincibile, indistruttibile, forzuto, violento, un aizzatore delle folle, un esempio perfetto è il buon vecchio Trump, o anche il nostro Mussolini per stare nel nostro territorio. Uomini di “questa portata” trasmettono fiducia e serenità, con loro a fianco non dobbiamo preoccuparci di nulla,
  • possiede una mascolinità obbligatoria, è maschio in ogni sua movenza, deve esserlo, per non perdere credibilità, è molto virile sempre.
  • non piange e non è in grado di capire nessuna creatura al di fuori del suo ego, non entra in empatia con altre persone,
  • il vero uomo gioca sempre con malizia, il sesso è il suo pensiero fisso, in quanto essere dominante in veste di promotore della specie,
  • la donna al suo fianco deve essere esseri ubbidiente, silenziose, moderate, femminile e intrattenitrice, un passo indietro,
  • non possiede lati vulnerabili,
  • in ultimo non chiede mai aiuto, prima di tutto perché non ne ha bisogno, e in secondo luogo, perché sono le persone fragili a chiederlo.

Questa lista di stereotipi è una sorta di vademecum che viene, in modo tacito, considerata essenziale per potersi sentire uomini in questa società. Inutile dire che stress può portare il dover rispettare criteri di questo tipo, ecco infatti, la così definita mascolinità tossica, vale a dire quest’insieme di caratteristiche, fissate nel medioevo che, chi non condivide o non si sente di voler soddisfare, verrà additato come diverso.

La società insegna a sopprimere le emozioni più delicate, il pianto, la paura, portando, a lungo termine, problemi di natura psicologica. Basti pensare ai genitori che, di fronte al figlio maschio in lacrime per un giocattolo, lo intimano a smettere dicendo: “non vedi che piangi come una femminuccia?”. Perché i genitori si impegnano così tanto ad insegnare al figlio maschio che il pianto, sinonimo di fragilità, è qualcosa solo di femminile? Perché non possiamo insegnare ai nostri bambini che piangere è semplicemente umano e va fatto quando ne sentiamo il bisogno?

Al bambino viene “inculcato” un modo di vivere ben preciso etichettando tutti gli atteggiamenti femminili come fragili e sbagliati, mentre vengono caldamente promossi tutti i comportamenti che faranno di lui un maschio alfa.

Il maschio basic cresciuto nei canoni imposti sarà violento, omofobo e misogino, per scacciare tutto quello che non deve far parte di lui, conosciuto come diverso. Non a caso, chi vive un’infanzia rigida in cui viene impartito il non pianto, la non emozione e il comportarsi da uomo vero, avrà poi affinità con la violenza fisica e verbale tra le mura domestiche nei confronti di chi vive con lui e non “sta al proprio posto”.

Ho ben chiaro davanti ai miei occhi, esempi noti a tutti di uomini veri, la storia infatti ci insegna vicende di guerrieri, invincibili, senza pietà che distruggono e vincono con la violenza. Mi viene in mente il concetto di superuomo che ci ha regalato Nietzsche, guarda caso poi strumentalizzato dal nazionalismo tedesco con Hilter, valido esempio come altrettanto lo è Mussolini, di uomini il cui il concetto di forza e virilità estrema li ha portati al distacco dalla realtà e natura umana da credersi invincibili. Uomini che hanno vissuto come degli highlander capaci di ogni, onnipotenti, con una lista infinita di amanti, ognuna meno importante dell’alta, tronfi, dall’ego smisurato che, nonostante gravi disturbi di salute, non hanno mai voluto mostrare al mondo le loro fragilità, per non intaccare la loro immagine di super uomini.

Vi ho fatto esempi estremi e malati, lo so bene, ma il mio scopo è quello di farvi capire fino a che punto può portare una malattia, perché di questo si tratta, come la mascolinità tossica.

Siamo esseri umani dotati di caratteristiche simili, sofferenza, fragilità, tristezza espresse sotto forma di pianto, dovrebbero entrare a far parte del nostro quotidiano, lasciando liberi gli uomini (intesi come maschi) dalle catene della non emozione.

La prima cosa che viene chiesta ad un bambino, appena uscito dall’utero della madre, è di piangere, come “conferma” del fatto che sia vivo, piangere è vita. Per quale motivo poi, durante il resto del cammino si tende a isolare gli episodi di pianto nei bambini maschi? Sento ancora troppo spesso genitori dire ai figli che piangono solo le bambine, questo perché è un luogo comune che spesso e volentieri diciamo sovrapensiero.

Vogliamo essere parte del cambiamento? Lo dico soprattutto a quei papà a cui è stato insegnato che piangere è sbagliato. Insegniamo ai nostri bambini che ad essere adulti sereni che riescono a vivere i propri sentimenti senza vergogna, il punto elenco del maschio alfa va dimenticato e tolto dai nostri file di memoria, per il bene di tutti.

Ho scritto questo pezzo grazie al blog di un ottimo scrittore qui su wordpress che amo leggere, che ha dedicato diversi suoi articoli su questo tema, quindi grazie dell’ispirazione.

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Mobbing tra colleghe.

Ancora? Eh si, nonostante tutto non sono ancora riuscita a scrivere tutto quello che avevo in nota per sentirmi soddisfatta davvero, eva-vs-eva è stato uno dei miei primi articoli, la competitività tra donne è un territorio così vasto da permettermi di aggiungere sempre informazioni nuove.

Tramite la mia pagina Instagram abbiamo parlato del perché, ho chiesto ad un buon numero di donne di darmi un parere sulla base del loro vissuto, delle loro esperienze, vorrei partire da questi vostri spunti per poi cercare di rompere i soliti luoghi comuni e stereotipi legati al mondo femminile.

“Secondo voi, perché tra colleghe donne si ha la tendenza ad essere più cattive, false, competitive?”

  • Invidia per cui criticano qualità che vorrebbero e non hanno, nascondono quindi un senso di inferiorità,
  • superiorità, si comportano male verso chi vedono più debole,
  • paura di essere invisibili, non apprezzate, vogliono farsi notare schiacciando le altre colleghe,
  • mascherano insicurezze e paure aggredendo le altre donne, hanno poca autostima cercano di distruggere quindi quella delle altre colleghe,

Direi quasi tutto condivisibile, ricordo nel mio primo lavoro eravamo tutte donne, avevo appena 19 anni quindi completamente sprovvista di corazza per proteggermi dal mondo che avrei trovato all’interno. Una mia collega, Daniela, vedendomi sempre sorridente e disponibile mi disse: “stai attenta, ricordati che noi donne non siamo mai contente di quello che abbiamo, la nostra tendenza è quella di essere subdole e calcolatrici”. Cara Daniela, avevi proprio ragione, peccato la prima pelle mi sia stata tolta, passaggio necessario per imparare a non cadere nella trappola due volte.

La competizione è donna, perché fa parte delle dinamiche di accoppiamento, questa è scienza, non si discute. La sopravvivenza della specie è un fattore genetico che ci porta alla riproduzione, al trovare un partner eccetera, pare che le donne entrino in competizione per poter essere elette contenitori del seme maschile. No io non ci sto posso dirlo? Questa spiegazione poteva andarmi bene fino a 100 forse 50 anni fa, oggi non più. Ci siamo finalmente decise all’upgrade e non siamo più delle incubatrici sforna figli, quindi amici scienziati smettiamola con questi stereotipi, luoghi comuni, teorie maschiliste.

Ho avuto a che fare con donne subdole, manipolatrici, pettegole, che cercavano di ledermi con attacchi laterali, mai frontali, una sorta di mobbing velato diciamo. Ho 38 anni quest’anno e quindi sono 19 anni che lavoro, questo mi ha permesso di stilare una sorta di vademecum della collega stronza per eccellenza, da tener il più lontano possibile.

  • Lei brama attenzione dal mattino appena inizia a lavorare fino al momento in cui esce dalla porta per tornare a casa sua, occhi su di lei sempre.
  • teme di passare per incompetente quindi cerca di carpire i suoi interlocutori con mezzi diversi che discostino dalle sue reali qualità,
  • è una donna molto sola con scarsa autostima che cerca riscatto impegnandosi a distruggere chi vede come possibile minaccia,
  • ha un grande complesso di inferiorità, mascherato da superbia come se nulla la scalfisse,
  • provocatrice, genera diatribe, punzecchia di continuo in maniera velata per farci sbottare, così da aggredirla e diventare finalmente la vittima incompresa con cui tutti si arrabbiano.

A questo punto il lettore potrebbe dirmi: “proprio tu parli, che sei una femminista?!” Prima di tutto amico mio lettore, vai a leggerti il mio pezzo: (https://fedyontheblog.com/2020/09/18/sostenere-una-donna-solo-perche-e-donna-e-lequivalente-di-un-autogol/), dove spiego il perché sostenere le donne solo perché donne, è un autogol in piena regola, in secondo luogo si, sono una femminista, significa che sostengo la parità tra i sessi; significa anche ammettere che ci sono uomini stronzi e donne stronze, non ci sono differenze.

Terminata questa breve spiegazione sul fatto che possiamo essere tutti cattivi uomini e donne indistintamente, vorrei aggiungere alcune considerazioni mie personali sulla collega stronza descritta sopra. Caratteristiche come queste non è un caso appartengano quasi sempre a donne e non a uomini, se leggiamo bene sono un elenco di fragilità. Nella mia esperienza di bambina ho subito ferite e tagli che si sono si cicatrizzati, ma hanno lasciato la pelle più fragile e sensibile. La nostra società maschile è ancora una volta una delle colpevoli, ha trasmesso per anni e anni file ben precisi sulla crescita dei figli, su come educare maschio e femmina, su cosa è bene e cosa è male per una ragazza. Le differenze di importanza e di ruoli che sono state impartite fino a qualche anno fa, hanno lasciato degli squarci incredibili nell’inconscio delle donne; pensate che lo stipendio più basso, la casa che grava solo su di noi, i tacchi e i capelli perfetti non siano un fattore che lede la nostra autostima? E secondo voi, l’idea che esista la donna perfetta, cosa che i media ogni giorno ci sparano in tv, non ci rende dei bersagli facili per alcune fragilità? Ragioniamoci un attimo, la competitività tra donne è solamente il frutto di questa società malata, siete d’accordo con me?

Come guarire? Direi che prima di tutto, è fondamentale schermarsi e proteggersi da colleghe stronze, perché mobbing di questo tipo può portare a forti livelli di stress e quindi intaccare la nostra salute. Giriamo alle larghe da chi ci sta facendo del male, consci del fatto che sicuramente dichiararle guerra è solo quello che vuole lei. L’arma, a mio avviso, più forte verso queste persone è l’accoglienza e il sorriso, cosa che probabilmente nella vita hanno assaporato poco, chi si comporta così è un’anima sola e sofferente.

ATTENZIONE: lo scrivo in maiuscolo perché è stato l’errore più grande che io abbia commesso e lo ricorderò per sempre, MAI E RIPETO MAI, fidarsi e raccontare le vostre vicissitudini private a questo genere di persone, possono sembrarvi cambiate, amiche gentili come non mai, ma non fatelo, sono pronte sempre a distruggere tutto e quindi raccontare ciò che per voi era tanto intimo e le avete confidato. Il vostro cuore va aperto solo ed esclusivamente in presenza di chi, nel tempo, vi ha dimostrato il bene, quello vero.

Grazie a chi mi ha parlato e raccontato le proprie esperienze e pareri, la condivisione è il pane quotidiano di chi scrive.

Fedy_on_The_Go

Bentornata al lavoro Mamma!

“Ok essere resilienti, ok uscire dalla zona comfort, ma mi aspettavo qualcosa di più soft. Mi sono impegnata a trasmettere serenità, nonostante tutto. Ho dovuto giustificarmi come se fermarsi per la maternità fosse sinonimo di vacanza, come se in pochi mesi distanti dal lavoro, le donne perdessero le competenze acquisite in anni di lavoro. Eppure..”

Questo è solo un estratto di un post di inizio anno di una mia cara amica diventata mamma da poco, quello che voglio fare oggi è leggere fra queste poche righe, raccontando quello che non è normale sia normale relativamente al rientro al lavoro delle donne dopo la gravidanza.

Francesca come tante altre mamme ha condiviso con me il suo rientro al lavoro, siamo amiche e come tali ci si racconta. La sua storia è uguale a quella di tante altre ragazze che ho conosciuto nell’ultimo anno, con due punti in comune fondamentali: aver fatto un figlio, dover rientrare al lavoro e sentirsi in colpa.

Lo scopo principale di questo articolo non è accusatorio verso un qualcuno in particolare, è un modo per raccontare come donne in settori diversi (commercio, industria, artigianato ecc) si siano trovate tutte nella stessa situazione, non voglio fare il processo alle intenzioni, quanto invece parlare del sentire di queste donne, come hanno vissuto il rientro, come lo vivranno, come sono state accolte, che sensazioni hanno percepito. Questo ci aiuterà a prendere coscienza insieme su cosa significhi tornare al lavoro nel 2020 in Italia dopo aver avuto figli.

In questo caso non ci sarà la mia solita componente autobiografica, perché per me il rientro al lavoro è stato ottimo, con datori di lavoro che mi hanno aperto le braccia, sostenuto e ascoltato le mie necessità di mamma e di donna. Realtà come la mia sono mosche bianche, il fatto che io “sia stata fortunata” ci fa capire come sia lontano il nostro obiettivo. Situazioni così andrebbero vissute come normali anziché come fortunate, la nostra società e il nostro governo dovrebbero lavorare affinché il benessere della mamma sia tutelato e d’obbligo, mentre invece la verità è quella che vi andrò a raccontare.

Non importa che tu abbia fatto solo i tre mesi di maternità obbligatoria, oppure anche la facoltativa, quando dovrai rientrare al lavoro farai un bel respiro perché nella tua testa aleggia quel senso di colpa “ti sei assentata dal lavoro per molto tempo”, si esatto come se avessi fatto una bella vacanza, poco importa se nel mezzo hai preso 10 o 15 punti per una lacerazione o se non hai ancora ripreso a dormire come dovresti. Per la maggior parte dei datori di lavoro (uomini o donne che siano) sei comunque un dipendente con un deficit, come se avessi un handicap, hai un figlio e questo per loro significa che il primo posto nella tua vita sarà impegnato da questo esserino e chiaramente non sarai più disponibile come prima.

“Ho mandato una mail per chiedere appuntamento al mio capo, volevo parlargli, prima del mio rientro ufficiale. L’idea era quella di spiegare la mia impossibilità al nido soprattutto ora con il covid (sarebbe più a casa che a scuola), il fatto che non ho nonni a disposizione e quindi l’esigenza di un part time. Il giorno del colloquio mi sono presentata in ufficio con il cuore in gola, se il mio capo non avesse capito le mie esigenze avrei dovuto prendere qualche decisione drastica”. Inizia così la storia di tutte, la mamma è ad un bivio: sceglierà di rientrare al lavoro come nulla fosse? Con le solite 8 o 9 ore al giorno, sempre super operativa, scegliendo di “trascurare” un po’ il figlio? Sarebbe per una buona causa, per dare un’ottima impressione ai titolari, mostrando quando tenga alla sua posizione e al suo lavoro. Oppure, sceglierà la famiglia, chiedendo una riduzione d’orario? Nel caso in cui venga negata che si fa? Potrebbe licenziarsi e accudire i figli, perdendo ogni possibilità di crescita lavorativa, ma potrebbe fare la mamma a tempo pieno.

La mamma deve scegliere, o la famiglia o il lavoro, questo appunto perché la maggior parte delle realtà non ha un lieto fine come la mia, purtroppo la società in cui viviamo non ha un minimo di sensibilità verso le neo mamme, non ha rispetto del rapporto mamma e figlio, del rientro al lavoro o del fatto che non è corretto separare i due per otto o nove ore al giorno. Di norma il proprietario dell’azienda (basandosi su quanto la legge italiana fa o ha fatto in questo ambito) semplicemente si limita a pensare alle sue esigenze produttive e ai costi, se la mamma ha qualche problema o solleva difficoltà nella sua gestione familiare, non sarà di certo lui a farsene carico.

Il comun denominatore di queste storie è uno: il rientro al lavoro per la mamma viene vissuto come un colpevole che si presenta al banco degli imputati sotto processo, una giuria pronta a processarlo con un capo d’accusa ben radicato nelle menti soggiogate dalla società: hai scelto di diventare mamma, mettendo in secondo piano il tuo lavoro.

In realtà i comun denominatori sono due, perché le mamme di cui parlo, sono rientrate tutte chiedendo riduzioni di orario, orari continuati, cambio di mansioni, richieste con uno scopo solo: ritagliarsi un po’ di ore, di energie per poter stare con il proprio bambino, a chi piacerebbe fare un figlio e lasciarlo al nido o dai nonni per dieci ore al giorno? La risposta è stata quasi per tutte la stessa:

  • riduzione d’orario per qualche mese, tempo che il bambino si abitui a “vederti meno” poi però torni a tempo pieno,
  • non possiamo farlo per te, poi se no dovremmo farlo per tutte le altre che ce lo chiedono,
  • non sei la prima a far figli, sono riuscite loro ad organizzarsi, puoi farcela anche tu,
  • lo so ti capisco, infatti mia moglie ha scelto di licenziarsi e restare a casa coi figli, il part time è un costo elevato per noi, non possiamo accettarlo mi dispiace.

L’Italia è uno dei paesi sviluppati con il numero più elevato di mamme disoccupate, credo non ci sia bisogno di ulteriori chiarimenti sul tema.

I part time sono in effetti molto più costosi per le aziende rispetto ai tempi pieni; caro governo, non sarebbe il momento di aggiornarsi e mettersi al pari degli altri stati europei? Agevolando i lavori flessibili per aiutare le mamme evitando che si sacrifichino sempre loro per il bene familiare? Cerchiamo di favorire l’apertura di asili nido all’interno delle grandi aziende, aiutiamo quelli già esistenti, così da poter abbassare le rette? E soprattutto miglioriamo le riforme legate alla maternità? Ci sono aspetti ancora così retrogradi che sembra di vivere nell’Italia fascista del 1920.

Queste mamme, come tantissime altre, si sono sentite sbagliate, in colpa per aver fatto un figlio, dipendenti noiose che danno fastidio. Alcune rientreranno al lavoro tristi e in pensiero per un bambino che dall’oggi al domani si troverà a passare intere giornate senza la sua mamma, altre invece non rientreranno proprio, costrette al licenziamento, è giusto tutto questo? E’ così che garantiamo il benessere delle famiglie? In che paese precario stiamo vivendo?

Ultima nota dolente che va detta è legata alle colleghe, sono femminista certo, ma ho prima di tutto un’etica e devo ammettere quando sono le donne le prime a sbagliare. In ogni racconto ho sentito proprio questo particolare, come le colleghe siano state perfide, violente verbalmente, come si siano scagliate contro le richieste di queste mamme, fa male sentirlo, cos’è che ci fa scattare questo meccanismo tale per cui, anziché condividere e sostenere, isoliamo ed emarginiamo la nostra collega neo mamma come se si fosse presa la famosa vacanza? Argomento ostico e appuntito direi questo, che tratterò in un altro momento, ma volevo scriverlo perché è uno degli aspetti più dolorosi della vicenda. Quanta solidarietà tra donne ci manca ancora, certi passi possiamo compierli solo insieme, smettiamo di sabotarci.

Sono veramente grata ai miei titolari e alle loro “menti aperte” per avermi dato la possibilità di gestire il lavoro in base alle mie esigenze e quelle di mia figlia, permettendomi quindi di essere e fare la mamma in serenità godendoci il nostro tempo. Tutto questo è ancora una rarità, voglio essere fiduciosa e pensare che aziende come quella in cui lavoro io siano d’esempio, so per certo che su questa scia tante altre stanno operando allo stesso modo.

Alle mamme che hanno dovuto scegliere voglio dire di raccontarlo, di parlarne, perché NON E’ NORMALE CHE SIA NORMALE, sradichiamo dalle nostre teste abitudini di una società vecchia, bigotta, preistorica, superata e VERGOGNOSA.

Questa sono io, che ci spera sempre, con la testa lassù, tra le nuvole.

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Ascoltiamo cosa vuole dirci l’invidia.

L’invidia è qualcosa di obiettivamente spiacevole, si insinua dentro di noi e lavora, macina, deteriorandoci, portandoci ad idee e ragionamenti del tutto poco amorevoli. E’ un sentimento che si prova nei confronti di un’altra persona, che possiede doti o beni che vorremmo avere noi, spesso, almeno nel mio caso, la si avverte perché non si tollera che altri abbiano qualità pari o superiori a noi.

Ho scelto questo argomento per semplici motivi, il primo è che io stessa mi sono trovata troppo spesso vittima di questo sentimento, come al solito quindi voglio condividere queste sensazioni con voi, il secondo è che lo si addita sempre come un sentimento negativo ma, valutato in chiave diversa, ha aspetti estremamente costruittivi.

Vorrei entrare in un caso un pochino più specifico, uno dei miei primi articoli, Eva vs. Eva (https://wordpress.com/post/fedyontheblog.com/142) parlava proprio di questa invidia concorrenziale tra donne, cercando anche di entrare nel merito della questione e analizzandone le origini. Oggi volevo riprendere l’argomento proprio perché alcuni aspetti mi incuriosiscono molto e vanno affrontati anche per andare ad aumentare e solidificare l’armonia tra donne, troppo spesso messa da parte.

Art Print di Lieke Van der Vorst.

L’invida tra donne esiste da sempre come “gioco” della nostra società, ovviamente la solita colpevole, vuole farci credere sia parte integrante della vita femminile, lottare, competere, vincere contro le altre. Ma il motivo? Qualcuno ha capito quale dovrebbe essere il premio per chi vince? Nessuno lo ha capito, perché ogni singola donna è portata al confronto verso una sua simile, confronto in termini di felicità soprattutto. Conosco donne che si sono costruite un impero con le loro mani, nonostante questo invidiano la mamma senza lavoro che vive in un piccolo trilocale gioiosa con il suo bambino, come può essere felice lei? Se io che mi sono guadagnata un impero non lo sono?

Il confronto è la parola chiave, perché noi donne siamo sempre le più osservate e messe alla gogna in caso di mancate capacità, e i giudici più severi siamo noi. Vi faccio il mio esempio, ho partorito da un anno e qualche mese e mi viene naturale guardare mamme che hanno partorito da molto meno, che però sono già rientrate nei loro jeans pre figlio. Provo invidia si, soprattutto perché sembrano felici e più sicure di se. La società mi ha insegnato che se voglio riesco a dimagrire dopo la gravidanza, quindi il fatto che io non lo stia facendo mi fa sentire sbagliata, invidiosa di chi lo ha fatto.

Devo però ammettere che i tipi di invida che provo sono molti, oltre a quello detto sopra ne ho provati altri, uno dei quali abbastanza salutare ed è su questo che voglio fare leva; si tratta di invidia verso donne che stanno costruendo tanto, donne a cui vorrei somigliare quindi, che mi stimolano e sono diventate degli esempi. Sono donne normali, che si sono tirate su le maniche e hanno cambiato qualcosa nella loro vita che le spegneva, voltando pagina, decidendo che “adesso o mai più”, hanno preso quel treno che stava passando, hanno fatto quel passo tanto pauroso che sembrava fosse impossibile fare, quelle donne che si sono impegnate per capire cosa mancava nella loro vita.

La chiamo invidia salutare perché ben diversa dall’altro tipo di cui vi ho parlato, in cosa sarebbe diversa? Beh questa invidia non è dettata dagli stereotipi o dalla società maschile in cui viviamo, anzi è stata una forma di sentimento stimolante che mi ha portato a farmi una domanda: “posso farlo anch’io?”, la risposta è si. Uscendo dai canoni prefissati di questa società limitata, mi sono detta che se volevo fare altri passi potevo, da tempo avevo in testa quell’idea di studiare quell’argomento che tanto mi piace, quindi?

Sono uscita dagli schemi legati allo studio in un’aula con il docente di fronte, sapevo di faticare perché ho una figlia piccola, un lavoro, una casa, tempo pochissimo, ma sono io che ho in mano la mia scelta e posso incanalarla nel modo in cui ritengo opportuno, quindi sono partita e sto facendo questo percorso ormai da aprile con esami e lezioni online. Ecco il buono dell’invidia sana, stimola al miglioramento.

Cosa rende un sentimento come l’invidia positivo? A parer mio, lo diventa se è qualcosa che ci porta a migliorarci, a crescere, se è un fuoco che abbiamo dentro noi. Tutto l’opposto dell’invidia che nasce per colpa di una società che mette a confronto le persone, facendole sentire inadatte, mettendo in competizione donne così da stimolarle all’acquisto, al consumo di “cose” per migliorare e diventare le medaglie d’oro indiscusse.

Il passo è piccolo ma una volta fatto sembra di aver camminato una vita intera, ho passato così tanto tempo seduta a far l’osservatrice, guardare le altre persone fare progressi, intestardirmi nel dire che io non ne avevo bisogno perché stavo bene così, quando in realtà avevo solo paura di fallire. Mi rendo conto solo ora della mia mente piccola e chiusa, che male c’è nel fallire? C’è più male nel non provarci, nello stare fermi ad invidiare in modo cattivo gli altri che ci provano, deridendoli magari.

Che potere ha una mente aperta che si mette in gioco e si da una seconda possibilità? Non fermiamoci, nella vita possiamo fare tanto, quel passo sembra tanto faticoso, ma in realtà sarà la cosa più bella e soddisfacente che ci sia. Ascoltiamo cosa deve dirci la nostra invidia, potrebbe essere la strada nuova che cercavamo.

Art Print di Lieke Van der Vorst.

Aggiungo anche che il mio lato femminista, che sto con amore coltivando, vuole sostenere, appoggiare, credere, spronare tutte le donne che nel mondo “ci stanno provando”, insieme possiamo fare tanto.

Fedy_On_The_Go

“Il successo non è definitivo, il fallimento non è fatale: ciò che conta è il coraggio di andare avanti” (Winston Churchill)

Metamorfosi.

Aspetto il mese di dicembre tutto l’anno, poi quando arriva è un casino. Una continua alternanza di stati d’animo e sbalzi, luci natalizie e buio delle 16.30 del pomeriggio, speranza misto malinconia. Sarà la fine dell’anno che mi mette addosso quella sensazione di tempo che scorre e scivola via, quest’anno poi, portandomi questo flusso di sinfonie scritte in lettere che pubblico sul mio blog. Sinfonie fatte di ansia, pressione alta, rivoluzione, guerra, post parto, ormoni, pianti, gioie, rincorse, salti, obiettivi, cambio di strade ecc..

Quanti anni ho lasciato soffocare tutte queste “cose”? Lasciavo li quella voce, come se non esistesse, la voce di chi voleva parlare una lingua diversa da quella che io volevo sentire; adesso, a fine anno viene quasi normale fare un bilancio di questo 2020.

Da quando ho aperto la mia “mostra” online, fatta di scritture su ogni cosa mi passi per la testa, è cambiato tanto, ho vissuto quella cosa che Kafka chiamava metamorfosi senza rendermene conto. Ho iniziato a scrivere durante la prima quarantena e qualcuno mi leggeva veramente, incredibile mi sono detta! Scrivevo, liberavo mente e parole e mi sembrava di fare sempre un passo in più verso una meta, ma quando, ad un certo punto mi sono voltata, ho visto una nuova realtà, non ero più nel posto di partenza, era cambiata la strada, la meta, il paesaggio, proprio avevo bypassato i binari che avevo pronti davanti, uscita completamente di strada, ero immersa in acque scure.

La bellezza di questa sensazione? Non so dirla a parole, non sono “riuscita” a restare nella normalità, con mio grande grandissimo piacere. La normalità? Forse una parola, una sensazione che ci serve per non aver paura di annegare in acque sconosciute, ho lottato tantissimo per non essere diversa, e ogni volta che arrivava quella sensazione di mancanza d’aria, formicolio alle mani, cuore nelle orecchie, sudori freddi, mi sentivo come se il mio corpo, la mia mente, la mia personalità soffocata si rivalesse di quello che l’avevo costretta a vivere.

Quando ho iniziato ha scrivere davvero ho come lasciato uscire quel lato emarginato, qualcuno si impossessa di me e parla per tutte le volte che non gliel’ho lasciato fare. Sono acque molto profonde, dove ci si può tuffare solo se si sa nuotare bene, riesco a galleggiare a fatica perché le onde di queste parole sono forti e devo assimilarle poco alla volta per non venire travolta sempre. Voglio aver rispetto di questo mio lato che ho soffocato per tanti anni, ci devo e ci voglio convivere, è mio, e anche lui vive ogni giorno in mia compagnia. Prima lo scacciavo infondo a quel mare spaventoso dove butto tutto quello che mi fa paura, oggi mi ci butto anche io ogni tanto, da sola, perché il naufragare è bello se fatto in solitudine, senza preoccuparsi anche di altri.

Più le parole scendono e si calmano sul foglio, più le mie braccia riescono a tenermi a galla per godere delle onde che mi cullano portandomi, forse, alla riva da cui sono partita.

Entrare in contatto con quei pensieri è stata una delle cose più faticose e spaventose che continuo a fare, non posso smettere, se dovessi farlo tornerebbero ad essere quei mostri giganti che per anni hanno cercato di divorarmi durante le notti buie.

Quando rileggo quello che scrivo mi chiedo in che posto ero, è davvero un posto buio per me, ogni volta penso che sia l’ultima, che non mi riporti più nel mio mondo normale, e invece.. si, perché la novità è che quest’anno le ho dato un volto. Non ci sono mostri anzi, ho visto una bambina impaurita, piccola, che piange da sola e nessuno si scomoda ad accarezzare, ecco io l’ho vista la mia ansia, e aveva proprio quell’aspetto. Ecco perché non posso lasciarla da sola anch’io, ogni bambina piccola ha bisogno di un abbraccio, non esistono bambine cattive, lo sono diventate per qualche sofferenza che nella vita normale non deve essere riconosciuta come tale.

Il mio 2020 è questo, ho dato un volto a quella cosa che mi spaventa da quasi vent’anni, ho conosciuto finalmente quella persona che ho cercato in tutti i modi di far sparire, siamo tante persone ma voi ne vedete una sola.

“Mi si fissò invece il pensiero ch’io non ero per gli altri quel che finora, dentro di me, m’ero figurato d’essere.”

Pirandello Uno, Nessuno, Centomila.

Crescere figli, la nuova disciplina olimpica.

Parto da uno degli articoli scritti qualche mese fa relativamente alle mamme sotto esame (https://wordpress.com/post/fedyontheblog.com/636), per proseguire con l’argomento di oggi. Come ormai sapete bene sono mamma di una bambina di un anno e qualche mese e non vi ho mai nascosto quante volte mi sia sentita persa o “non brava”, seduta alla sbarra degli imputati.

Oggi sono io che invito al processo voi, tutti voi che pensate sia diventata una gara crescere i figli.

Nel mio caso specifico la bimba nei primi mesi era un pochino sottopeso, mangiava poco e di conseguenza, oggi è una bambina sana ma minuta rispetto ai bimbi della sua età. Una mamma alle prime armi che si sente dire in continuo che la bambina dovrebbe mangiare di più, vi assicuro non si sente bene. anzi; il pediatra è l’unica persona autorizzata a farmelo notare, il resto del mondo no. Quante volte mi sono sentita dire: “Ma le dai da mangiare?”, no figurati, l’ho fatta per farla morire di fame! Ma che domande sono?! Veramente il cervello lo avete azionato? Oppure lo avete in stand by per non esaurirlo subito?! Una mamma si sente già fragile e sbagliata a sufficienza, senza le vostre domande pessime.

Inevitabilmente si incontra sempre “l’insegnante” plurilaureato all’università della vita, il quale ti racconta come i suoi figli siano bravi, mangino sempre, siano già in grado di camminare, leggere, scrivere in cinese e fare le divisioni in colonna a 9 mesi, perché amano fare i paragoni verso chi è meno dei loro figli. L’ignoranza non ha limiti, il loro bambino sarà sempre di più del vostro, inutile proseguire con la discussione.

Oggi dopo 15 mesi con la mia bambina ho finalmente imparato alcuni trucchi per la sopravvivenza della mamma, e lasciatemi buttar giù un piccolo vademecum che deve essere d’aiuto a me quando incontrerò i professori di vita, ma anche a tutte le mamme, che come me, non sono mai abbastanza brave:

  • ogni bambino ha i suoi ritmi, tempi, abitudini, le forme di iper stimolazione sono deleterie in quanto possono solo creargli confusione e fatiche, che alla sua giovane età non è giusto conosca,
  • non esistono gare tra bambini, ogni essere umano ha iniziato un percorso unico che non può essere paragonato al nostro vicino di casa, sbarriamo gli occhi come i cavalli e guardiamo solo ai nostri bambini,
  • c’è fretta, di vederli capaci di fare, per poterlo mostrare al mondo, capaci di camminare, parlare, correre, scrivere, i bambini faranno tutto quello che nelle loro future capacità anche senza la fretta che ci stiamo mettendo noi, abbiamo forse paura che resti indietro rispetto agli altri? E allora?? Penso a quante mamme hanno bambini con deficit veri, e credo sia altamente irrispettoso quello che stiamo cercando di fare,
  • c’è fretta di insegnare a far da soli, biberon da soli, mangiare da soli, dormire da soli, e qui si torna al mio articolo precedente, ATTENTA CHE POI SI ABITUA:(Modifica articolo ‹ FedyOnTheGo — WordPress.com), il bambino si alzerà un giorno che camminerà da solo, vorrà la sua solitudine, dormirà da solo, quando cercheremo un suo abbraccio sarà lui a dirci: “Dai mamma, io sono grande”,
  • lasciarli piangere da soli, serve solo a farli vergognare dei loro modi di espressione delle emozioni, stiamo con loro e consoliamoli, io ho pianto spesso da sola in silenzio, mi vergognavo molto della mia incapacità di trattenere le lacrime, a che pro? ho dovuto fare poi un grande lavoro interiore per imparare che piangere è una reazione legittima di tutti gli esseri umani, quando il nostro bambino si consolerà da solo, saremo noi a piangere.
  • quando ci troviamo di fronte quelle persone che si riempiono la bocca di quanto sono bravi i loro figli perché sanno già fare, non sentiamoci piccoli o sbagliati solo perché il nostro bambino ancora non ce la fa, la normalità è un lusso, i figli prodigio lasciamoli a chi ne ha bisogno. Viviamo con serenità i suoi progressi, per farlo sentire sempre bene e apprezzato.

I primi anni, i primi passi, i primi progressi sono fatti di rassicurazioni, di abbracci, di tenerezze, il mio scopo non è fare un punto elenco delle skills raggiunte da mia figlia come se fosse un quiz attitudinale, ho intenzione di rispettare i suoi segnali. Non ho intenzione di lodarla a gran voce, sarà sufficiente farle un sorriso e abbracciarla forte, senza mettere in piazza con una spunta verde quello che è riuscita a fare, ripeto, ci saranno bambini che alcuni passi avanti non li potranno mai fare, rispettiamo le diversità altrui e teniamo i suoi progressi nel nostro cuore e occhi.

Ho avuto una gravidanza piuttosto difficile e anche i primi mesi di vita della mia bimba non sono stati facili, avrei avuto bisogno di tanta comprensione, collaborazione tra mamme e sostegno; il mondo esterno invece mi ha fatto sentire sbagliata, incapace di fare la mamma, incapace di dare latte a mia figlia e quindi pessima. Sono stata giudicata, osservata, guardata con gli occhi della compassione ma da lontano, mai un passo verso di me allungando la mano per dire: “va bene così Fede, sei stata coraggiosa, sei una brava mamma”.

Mi sono fatta così tante domande che la testa mi è scoppiata troppe volte, fino a portarmi a scompensi fisici legati ad una depressione post parto, ecco perché non mi permetterò mai di lodare il mio operato, le capacità di mia figlia o la nostra vita, non sono alla ricerca di strette di mano o complimenti esterni. C’è stato un tempo, seppure breve, che cercavo risposte negli altri, senza rendermi conto che la risposta migliore alla domanda: “sono una brava mamma?” era li di fronte a me, un sorriso fatto di cinque denti e degli occhi pieni d’amore.

Lasciamo fuori dalla porta di casa tutti quelli che si presentano con la lista dei paragoni, i nostri bambini sanno comunicare meglio di noi adulti, il loro sorriso ci può bastare per colmare ogni domanda. Chi ha bisogno di gareggiare continuamente, forse non sa che del suo primo premio non me ne frega proprio niente, non voglio un figlio “bravo” come il suo, non voglio una medaglia d’oro, quello che voglio è una bambina felice che si senta apprezzata sempre, il premio è il suo benessere.

Tra le mie amiche lettrici ci sono tante MumToBe, voglio darvi un consiglio col cuore: nessuno è autorizzato a dare giudizi al vostro essere mamma, i vostri sensi sono sulla sintonizzazione giusta sempre, non dubitate mai di quello che vi sentite di fare, nessuno conosce bene i vostri bambini come voi, li avete creati e portati con voi per nove mesi.

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