Lo spazio che meritiamo.

Iniziamo con un luogo comune, dirlo, ripeterlo, potrebbe solo aiutarci ad assimilare il concetto: le donne ai vertici, di qualsiasi attività, sono sempre molto poche rispetto agli uomini.

Chi di loro riesce ad arrivare ai vertici deve rispettare standard molto elevati: essere impeccabile, eccellente, perfetta nel ruolo affidato e il più delle volte dormire a fatica per la responsabilità che si sente addosso, per il pensiero di mantenersi tale. Ci avete badato invece a come sono gli uomini agli stessi irraggiungibili (per noi) vertici? Sono NORMALI, sono esseri umani a cui è anche concesso un errore ogni tanto, pochi sono gli impeccabili ed eccellenti, sono persone qualsiasi, alle volte con una lunga lista di difetti, a cui non viene richiesto “di essere qualcosa” in più rispetto al loro limite.

Aggiungiamo anche che spesso, questi uomini, sono arroganti, sicuri di se, certi di meritare a pieno quel ruolo. Capaci di guardare tutti dall’alto verso il basso, non sanno cosa sia l’umiltà, non conoscono la fatica di affermarsi e di raggiungere obiettivi con i bastoni tra le ruote, non sanno cosa vuol dire fare di più del dovuto per essere riconosciuti, perché in quanto uomini non hanno nulla in più da dover dimostrare, a differenza nostra.

Ci pensate ad una donna in una posizione importante nelle sue vesti “normali”? Ecco, il fatto è proprio questo, e per spiegarlo mi riallaccio alle famose pari opportunità che ancora suonano come barzelletta alle mie orecchie. Per quale motivo a me viene richiesto il doppio lavoro, il doppio della fatica, sacrifici familiari ecc.. per poter raggiungere un ruolo importante?

E’ possibile avere le stesse opportunità date agli altri? Possibilità di essere ai vertici in modo normale? Senza dover sputare sangue ad esempio? Le donne che sono arrivate in alto hanno dovuto mettere da parte davvero tanto, fare scelte dolorose per dimostrarsi “degne”, sacrifici così grandi da far piangere nella solitudine della sera. La donna che arriva in alto deve essere la migliore, solo eccellendo può ambire a un ruolo “maschile”, perché si un qualsiasi ruolo di dirigenza è ancora considerato da uomo.

L’Italia è invasa da uomini che occupano posizioni di potere, di privilegio, basti pensare al nostro parlamento, il presidente del consiglio, il presidente della repubblica; oppure possiamo guardare anche alle più piccole realtà, le aziende dove lavoriamo, il nostro comune, la nostra provincia, quante donne vedete ricoprire ruoli di potere? Diciamo poche o quasi nessuna? Direi di si. L’Italia, per i suoi pregressi storici, è uno dei paesi più retrogradi relativamente al ruolo della donna nella società, siamo ancora una minoranza in termini di istruzione e lavoro, è ancora normale che una donna, dopo essere diventata mamma, lasci il lavoro perché incompatibile con l’esigenze dei bimbi. L’Italia è ancora un paese che non tutela la figura della donna o della mamma, perché nelle posizioni di potere ci sono quasi sempre solo uomini, che non conoscono queste fragilità e neanche si prestano a capirle.

Non c’è vittimismo in questo discorso, solamente realismo di fronte alle diverse opportunità che ci vengono date, noi abbiamo bisogno di spazio in questa società, la nostra lungimiranza, la nostra intelligenza mixata con la sensibilità che tanto ci viene criticata, sono doti molti utili e preziose nel mondo in cui stiamo vivendo, pieno di diversità e fragilità che, un uomo, non essendo mai stato fragile o in minoranza, non potrebbe mai vedere.

Smettetela di chiederci di essere eccellenti nel ruolo che ricopriamo, quando intorno a noi ci sono solo uomini che svolgono le loro mansioni in modo normale, lasciateci essere come siamo, senza pretese extra solo perché siamo donne e siamo arrivate in un posto che “solitamente” è impegnato da una desinenza maschile.

Siamo un bene prezioso, lasciateci essere parte attiva in questa società, vogliamo l’opportunità di essere normali anche noi.

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Ascoltiamo cosa vuole dirci l’invidia.

L’invidia è qualcosa di obiettivamente spiacevole, si insinua dentro di noi e lavora, macina, deteriorandoci, portandoci ad idee e ragionamenti del tutto poco amorevoli. E’ un sentimento che si prova nei confronti di un’altra persona, che possiede doti o beni che vorremmo avere noi, spesso, almeno nel mio caso, la si avverte perché non si tollera che altri abbiano qualità pari o superiori a noi.

Ho scelto questo argomento per semplici motivi, il primo è che io stessa mi sono trovata troppo spesso vittima di questo sentimento, come al solito quindi voglio condividere queste sensazioni con voi, il secondo è che lo si addita sempre come un sentimento negativo ma, valutato in chiave diversa, ha aspetti estremamente costruittivi.

Vorrei entrare in un caso un pochino più specifico, uno dei miei primi articoli, Eva vs. Eva (https://wordpress.com/post/fedyontheblog.com/142) parlava proprio di questa invidia concorrenziale tra donne, cercando anche di entrare nel merito della questione e analizzandone le origini. Oggi volevo riprendere l’argomento proprio perché alcuni aspetti mi incuriosiscono molto e vanno affrontati anche per andare ad aumentare e solidificare l’armonia tra donne, troppo spesso messa da parte.

Art Print di Lieke Van der Vorst.

L’invida tra donne esiste da sempre come “gioco” della nostra società, ovviamente la solita colpevole, vuole farci credere sia parte integrante della vita femminile, lottare, competere, vincere contro le altre. Ma il motivo? Qualcuno ha capito quale dovrebbe essere il premio per chi vince? Nessuno lo ha capito, perché ogni singola donna è portata al confronto verso una sua simile, confronto in termini di felicità soprattutto. Conosco donne che si sono costruite un impero con le loro mani, nonostante questo invidiano la mamma senza lavoro che vive in un piccolo trilocale gioiosa con il suo bambino, come può essere felice lei? Se io che mi sono guadagnata un impero non lo sono?

Il confronto è la parola chiave, perché noi donne siamo sempre le più osservate e messe alla gogna in caso di mancate capacità, e i giudici più severi siamo noi. Vi faccio il mio esempio, ho partorito da un anno e qualche mese e mi viene naturale guardare mamme che hanno partorito da molto meno, che però sono già rientrate nei loro jeans pre figlio. Provo invidia si, soprattutto perché sembrano felici e più sicure di se. La società mi ha insegnato che se voglio riesco a dimagrire dopo la gravidanza, quindi il fatto che io non lo stia facendo mi fa sentire sbagliata, invidiosa di chi lo ha fatto.

Devo però ammettere che i tipi di invida che provo sono molti, oltre a quello detto sopra ne ho provati altri, uno dei quali abbastanza salutare ed è su questo che voglio fare leva; si tratta di invidia verso donne che stanno costruendo tanto, donne a cui vorrei somigliare quindi, che mi stimolano e sono diventate degli esempi. Sono donne normali, che si sono tirate su le maniche e hanno cambiato qualcosa nella loro vita che le spegneva, voltando pagina, decidendo che “adesso o mai più”, hanno preso quel treno che stava passando, hanno fatto quel passo tanto pauroso che sembrava fosse impossibile fare, quelle donne che si sono impegnate per capire cosa mancava nella loro vita.

La chiamo invidia salutare perché ben diversa dall’altro tipo di cui vi ho parlato, in cosa sarebbe diversa? Beh questa invidia non è dettata dagli stereotipi o dalla società maschile in cui viviamo, anzi è stata una forma di sentimento stimolante che mi ha portato a farmi una domanda: “posso farlo anch’io?”, la risposta è si. Uscendo dai canoni prefissati di questa società limitata, mi sono detta che se volevo fare altri passi potevo, da tempo avevo in testa quell’idea di studiare quell’argomento che tanto mi piace, quindi?

Sono uscita dagli schemi legati allo studio in un’aula con il docente di fronte, sapevo di faticare perché ho una figlia piccola, un lavoro, una casa, tempo pochissimo, ma sono io che ho in mano la mia scelta e posso incanalarla nel modo in cui ritengo opportuno, quindi sono partita e sto facendo questo percorso ormai da aprile con esami e lezioni online. Ecco il buono dell’invidia sana, stimola al miglioramento.

Cosa rende un sentimento come l’invidia positivo? A parer mio, lo diventa se è qualcosa che ci porta a migliorarci, a crescere, se è un fuoco che abbiamo dentro noi. Tutto l’opposto dell’invidia che nasce per colpa di una società che mette a confronto le persone, facendole sentire inadatte, mettendo in competizione donne così da stimolarle all’acquisto, al consumo di “cose” per migliorare e diventare le medaglie d’oro indiscusse.

Il passo è piccolo ma una volta fatto sembra di aver camminato una vita intera, ho passato così tanto tempo seduta a far l’osservatrice, guardare le altre persone fare progressi, intestardirmi nel dire che io non ne avevo bisogno perché stavo bene così, quando in realtà avevo solo paura di fallire. Mi rendo conto solo ora della mia mente piccola e chiusa, che male c’è nel fallire? C’è più male nel non provarci, nello stare fermi ad invidiare in modo cattivo gli altri che ci provano, deridendoli magari.

Che potere ha una mente aperta che si mette in gioco e si da una seconda possibilità? Non fermiamoci, nella vita possiamo fare tanto, quel passo sembra tanto faticoso, ma in realtà sarà la cosa più bella e soddisfacente che ci sia. Ascoltiamo cosa deve dirci la nostra invidia, potrebbe essere la strada nuova che cercavamo.

Art Print di Lieke Van der Vorst.

Aggiungo anche che il mio lato femminista, che sto con amore coltivando, vuole sostenere, appoggiare, credere, spronare tutte le donne che nel mondo “ci stanno provando”, insieme possiamo fare tanto.

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“Il successo non è definitivo, il fallimento non è fatale: ciò che conta è il coraggio di andare avanti” (Winston Churchill)

SMART MAMME 2.0

Potrei scrivere una prefazione degna di quello che andrete a leggere, ma questo pezzo, scritto d’impeto da una mia cara amica, è già perfetto così e credo non abbia bisogno di aggiunte, se non le virgolette per aprire e chiuderlo.

“Durante un colloquio chiedere ad una donna se ha o se vorrà figli è ancora legittimo? Un’aberrazione che ci riporta nel 1912. Cosi iniziava una discussione che ho letto su LinkedIn stamattina alle 6.00, durante l’ennesima poppata di mio figlio.

Giusto, sacrosanto. L’ho sempre pensato e anzi ho sempre combattuto perché questa concezione sparisse sia nei miei confronti, che in quello di colleghe o collaboratrici. Eppure, stamattina, mi sono fermata un attimo a riflettere. Fare questa domanda oggi, in questo momento di difficoltà assurda che stiamo vivendo, ha ancora solo una dimensione di inaccettabilità? Parliamone. Vi dico solo una parola. SMARTWORKING. Lavoro agile, intelligente. Fantastico. Flessibile. Puoi lavorare dove, come e quando vuoi. Si ma se hai i figli? E magari senza aiuti esterni? Aggiungiamo anche una casa da gestire nonostante con la collaborazione di tuo marito?

Ho sentito leggende di donne felicissime di svolgere smartworking da casa perché mentre impostano una call si fanno la maschera ai capelli, mentre parlano al telefono col capo si riescono a sistemare lo smalto, mentre fanno un briefing con le airpods alle orecchie, mettono su un brasato. Smartworking, smarthousing, smartcooking, tutto insieme. Poi riescono addirittura a fare pausa caffè comodamente in ciabatte. Una cosa mai vista. Tutte queste esperienze fantasmagoriche però vengono da chi non ha la compagnia dei figli a casa. Poi penso, magari sono così negativa perché io ho i figli piccolissimi e sono difficili da gestire. Purtroppo no, perché se hai un figlio grande che magari deve usare il pc per la didattica a distanza, è pure peggio. Oltre a dover condividere gli strumenti (non tutti sono cosi fortunati da avere due PC), devi trovare il tempo di seguirlo, controllargli e compiti e tenerlo stimolato perché non diventi lobotomizzato e rincoglionito di fronte ad uno schermo. Non sto dicendo che non si possa fare, ma io ho la perenne sensazione di mettere dei buchi, di raffazzonare, di non fare bene niente, sia come mamma che come lavoratrice. Tra una call e l’altra c’è la colazione, nel mentre sotto le unghie invece dello smalto residui di cacca acida che devo cambiare ogni due ore, durante un briefing imposto una poppating, prima di inviare una mail devo fare un controling che la plastilina non finisca nell’esofago, poi devo preparare il pranzing la merending e infine la cening. Ma come cavolo si fa?”

Foto poco realistica, nessuna donna sorriderebbe beata in questa situazione.

Siete d’accordo con me che questa bellissima e verissima testimonianza non aveva bisogno di presentazioni?

La pura e vera semplice realtà, io sono fortunata, ho l’aiuto di mia mamma nella gestione della bimba quindi faccio parte di chi fa smart working da casa, passando le sei ore più belle e rilassanti della mia giornata, ma non per tutte è così.

La testimonianza, centro nevralgico di questo articolo, vuole dar voce alla quantità pazzesca di mamme che si trova a dover diventare SMART in tutto, mettiamoci per un attimo nei suoi panni, un bambino alle prese con la DAD e uno appena nato che ha bisogno di ogni cura possibile, un lavoro da gestire, una casa, senza aiuti esterni. Questa SMART VITA quanto può fare bene ad una mamma alle prese con una montagna di responsabilità? E al giorno d’oggi è davvero possibile conciliare lo smartworking con la smart realtà che ci hanno destinato?

Siamo uno dei paesi con crescita demografica negativa più accentuata, e ci sono ancora UOMINI che fanno i politicanti che insistono sul fatto che le donne dovrebbero cercare di fare più le mamme perché questo è un paese di vecchi. Come si fa? Quante donne dopo aver letto questa esperienza possono davvero sentirsi stimolate a fare figli?

Esattamente dieci anni fa, durante uno degli ultimi colloqui di lavoro fatti, mi è stato chiesto: “Lei vuole figli nel breve termine? Oppure può garantirmi che per almeno due o tre anni non ne farà?”, non mi sono scandalizzata molto di fronte a questa domanda, era il quinto colloquio in un mese e ogni datore di lavoro (tutti uomini) mi avevano fatto la stessa domanda. All’ultimo fatto ho risposto no, figli non ne volevo, il giorno successivo mi è arrivata la telefonata che confermava l’assunzione.

Sono rimasta incinta esattamente 8 anni dopo e senza ragionarci molto, perché razionalmente, vedere le fatiche che fa una mamma, è un incentivo a non riprodursi e l’idea di averne magari un secondo mi terrorizza in termini di “gestione”.

Io vivo in un’isola felice, lavoro da casa con titolari (tra cui una donna, fattore MOLTO RILEVANTE) che mi danno libertà di gestione, e nonni disponibili, ma quante possono dirsi fortunate come me?

Ci si alza al mattino annaspando e si parte per una giornata piena di punti di domanda, ce la farò oggi a fare quel lavoro che mi hanno chiesto di completare con urgenza? Ma se il bambino come ieri non riesce a dormire, come faccio a finire? E se salta ancora la connessione internet come si fa con la DAD? Il pannolino chi lo cambia se io sono nel pieno del meeting? Poi finisce che la riunione si fa senza di me perché “come al solito il bambino urla e si è scollegata”. Arriva la sera con la sensazione di aver messo pezze ovunque, lavorando in modo mediocre, con sensi di colpa versi i tuoi figli perché non ti senti di essere stata una brava mamma attenta ai loro bisogni, sensi di colpa verso il tuo ruolo di “donna di casa” perché i letti sono ancora da fare, i piatti sporchi ancora sul tavolo e la lavatrice da svuotare. Arriva sera e ti senti solo le spalle pesanti, i capelli sporchi ma il bambino ha sonno e anche oggi rinuncerai a te per seguire lui.

Attualmente la giornata standard di una mamma prevede:

  • Lavoro da casa,
  • Lavoro da mamma con figli in casa,
  • Lavoro di gestione casa,

Questa è la normale routine, a cui dobbiamo aggiungere le urgenze sopravvenute:

  • Bambini ammalati, bambini che non vogliono stare davanti al pc, strumenti per la DAD che non funzionano bene, chiamate urgenti e riunioni dall’ufficio, urgenze lavorative, cacca acida che arriva fino al collo, lavandino otturato dai capelli, pranzo da cucinare, volete aggiungere altro?!
Anche qui foto poco realistica, ma non ne esistono diverse, si sa, le donne devono sorridere per essere belle.

Quando potremo anche noi tornare dal lavoro alle sei di sera, coricarci sul divano in attesa che ci preparino la cena? “Ho lavorato tutto il giorno, sono stanca” Perché il “fare la mamma” non viene percepito come un lavoro? ma più come una task standard che appartiene solo alle mamme ed è parte integrante del ruolo di donna? Come dire: “si ok fai la mamma, ma poi che lavoro fai?” Come se fare la mamma sia una cosa da niente! Ma stiamo scherzando?!

Care mamme, questo articolo parla di noi, perché nessuno lo fa, si parla dell’economia in ginocchio, si parla delle zone rosse, arancioni, gialle, si parla dei mercatini di natale che quest’anno non ci saranno, ma nessuno parla del ruolo da super eroi che ci siamo trovate addosso anche questa volta. In tutta la società noi e i nostri figli siamo i soggetti più schiacciati, ovviamente mai interpellati. Chi decide e gestisce sono sempre uomini, solitamente i meno coinvolti nella vita e nella gestione familiare, perché sappiamo bene tutti che i figli sono delle mamme.

Oggi abbiamo scelto di darci voce, in questo periodo difficile, siamo le persone più forti, coraggiose ed energiche che ci siano, nessuno ne parla, ma superiamo prove estreme ogni giorno.

Un grazie alla mia amica Anna per il vivace, sarcastico e realistico pezzo che mi ha scritto.

Saluti care mamme, vado a fare la smart cacca intanto che la figlia con la smart febbre mi lascia un pochino di smart tempo!

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Odio piangere di fronte a chi mi ha fatto incazzare.

C’è qualcuno che come me soffre di questa sindrome disastrosa e fastidiosa? Quelli che durante la discussione della vita, con tutte le carte vincenti, pronti per andare a meta, si trovano all’apice dell’incazzatura e, anziché dare il colpo di grazia, si trasformano in bambini capricciosi iniziando a piangere con singhiozzi e il naso rosso? Dio che fastidio, come dice una delle canzoni su Spotify che sto ascoltando in questi giorni.

Mi immagino la scena vista da fuori, suona come una grandissima sconfitta, l’avversario di turno vince inesorabilmente guardandomi riversa nelle mie lacrime indifesa. I suoi pensieri in testa quali potrebbero essere?

  • “Ma guardala immatura e ancora bambina che non riesce a gestire una conversazione”,
  • “la solita donna emotiva”,
  • “ha finito gli argomenti e quindi piange”,
  • “è una donna troppo fragile”,
  • E il peggiore di tutti credo sia: “ecco l’ho fatta piangere, ho vinto”.

La realtà, amici che mi fate piangere, è ben diversa, esiste questa categoria sfigata a cui appartengo con tutti i meriti, di persone così incazzate che, anziché riempirvi di mazzate (perché il dialogo non ha più senso), anziché urlarvi contro le peggio parole disponibili nei vocabolari, si spengono e stringendo i pugni, iniziano a piangere.

Andando sempre più nello specifico, solitamente quando capita a me, sto discutendo con una persona che si trova su un pianeta diverso dal mio, difficile quindi comprenderci. L’avversario superclassico è un uomo, purtroppo, con l’atteggiamento di chi mi sta sbeffeggiando, sorride intenerito di fronte ai miei sforzi di farmi capire invano. Lui mi guarda e prova tenerezza verso questa donna (che sarei io) con la piangina facile, un’escalation di toni di voce dove lui mi sovrasta e io capisco che non si può battere un avversario a chi grida di più.

Vi racconto di questo collega, ormai non so dire quanti anni siano passati dal fatto, io ero piuttosto giovane e impetuosa come sempre, lui un uomo molto frustrato e amareggiato dalla vita. Discutevamo spesso, e la mia promozione (se così possiamo chiamarla, direi più un martirio), l’aveva molto infastidito. All’ultima discussione, perché poi non ci siamo più rivolti parola, ha osato avvicinarsi a 5 cm dal mio naso e con gli occhi rabbiosi mi dice: “sei ridicola, tu questo lavoro non sei in grado di farlo e lo sai bene”. Eccole che arrivano, le lacrime iniziano a scendere da sole, che fastidio e lui rincara la dose: “ecco vedi, questa è la differenza tra me e te”. Nei giorni successivi, probabilmente deve essergli apparsa in sogno la Madonna che lo ha illuminato d’immenso, eccolo che torna e inizia a dirmi come lo abbia fatto riflettere vedermi piangere, aveva superato il limite concesso e si scusava tanto. La mia risposta è stata breve “No adesso basta”. La frase sul mio pianto che lo aveva fatto riflettere era ancora peggio del fatto che io avessi pianto! Lui era il capitano dell’Enterprise, l’uomo alfa, io ero una bambina piccola, bisognosa di coccole, affetto, tenerezza e modi dolci, il rischio era di farmi piangere ancora.

Come te lo spiego caro ex collega che io piango perché sono incazzata e incapace di parlare la tua lingua per spiegarti le mie ragioni? Come posso farti capire che il pianto è la risposta al tuo essere ottuso e incapace? Il mio pianto rappresenta la tua inettitudine ed io, delusa ancora dal genere umano che, non vede mai oltre il proprio naso, piango per la sconfitta che anche tu infliggi al mondo.

Non sempre tutto si risolve così facilmente, ci sono stati momenti in cui ho pensato di aver pianto davanti a lui perché la frase “sei ridicola, questo lavoro non lo sai fare”, non era altro che le stesse parole che io mi ripetevo tutte le mattine. Il suo sguardo violento e quelle parole mi sembrano come la mia parte cattiva che riflessa nello specchio mi parlava e mi diceva quanto poco mi stimavo, quanto poco mi davo valore e quanto poco attribuivo valore al mio lavoro. Argomento già trattato lo so, ma i disagi sono uno incatenato nell’altro, io non mi sentivo abbastanza e il mio pianto per quella frase era perché mi ero ritrovata allo specchio, io non mi sentivo in grado di fare quel lavoro e la mia autodifesa era sempre l’attacco.

Per completezza, oggi so che quel lavoro lo sapevo fare e molto bene anche, l’acquisto di autostima e fiducia nelle mie capacità mi sta aiutando a piangere meno, allo stesso tempo rendermi conto che spesso il mio pianto è veramente la risposta alla chiusura mentale di chi mi sta di fronte è confortante, ascoltiamo quel bambino che abbiamo dentro quando piange per farsi sentire, cerchiamo di capire cosa vuole dirci.

Ricordiamoci anche dei poteri benefici del pianto:

  • È liberatorio, ci permette di non tenere tutto dentro e farci venire ulcere,
  • È uno sfogo, stiamo esternando un disagio, ascoltiamoci,
  • Da quando piango tanto ho smesso di soffrire di mal di stomaco,
  • Piangere è una pulizia, lasciamo andare quello che non ci fa bene.

Piccola nota per i nostri amici maschietti: POTETE PIANGERE ANCHE VOI SENZA SENTIRVI MENO UOMINI DOMINANTI CHE DETENGONO IL CONTROLLO.

Piccola nota extra per il prossimo che mi farà piangere (perché lo so che ci sarà): il mio pianto non è la tua vittoria, ma la tua sconfitta, piango perché ogni forma di umana tolleranza, con te, non ha dato risultati.

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Come posso disinserire la funzione multitasking dal mio sistema operativo?

Ho avuto il piacere di leggere un articolo di una donna estremamente caparbia, una comica con un intelletto sopraffino, lei si chiama Michela Giraud e sul numero di Vanity Fair di questa settimana parla di come sia importante essere donne MONOTASKING. Il suo savoir-faire ci insegna come dire no smettendo di pretendere da noi cose che non pretendiamo dagli altri.

Ho divorato il suo pezzo, riflettendo poi su come mai io mi sia sempre trovata a vivere con questa funzione attiva, in effetti nessuno mi ha chiesto esplicitamente di essere multitasking, ma perchè l’ho sempre fatto?

Mi sono sempre sentita in dovere di farlo in quanto donna, per poter valere almeno quanto un uomo, nella mia mente sono stata inferiore per molto tempo, svolgere 10 funzioni insieme mi aiutava a valutarmi quasi come gli altri. Mi faceva sentire una donna meno inutile, una donna desiderabile perché più adempiente, più utile e necessaria in campo lavorativo perché ero una sola ma lavoravo per tre. Volevo sentirmi riconosciuta, “brava”, una donna che sa fare.

Da me pretendevo una cosa sola, essere impeccabile: in forma, bella, ordinata, capello liscio, trucco, pulita, profumata, pelle morbida e idrata da curare con prodotti giusti (costo minimo un rene cad.), sorriso giusto, vestiti sempre nuovi ogni giorno (mai mettersi la stessa cosa due volte di fila). Una perfetta donna di casa che tiene pulito, in ordine, tutto stirato (anche gli asciugamani), acquistati numero due i-robot per la pulizia costante del piano sotto e sopra, vetri splendenti e “home sweet home” appeso ovunque. Non poteva essere diverso sul lavoro, il telefono ovviamente era mio, quindi si risponde al centralino, si smistano le mail, si apre al corriere, si firma la raccomandata, si fa accoglienza e nel mentre dovevo anche fare il mio lavoro, ma la pipì quando? Ah si il tutto coronato dai miei attacchi di panico. (vedi ultimo articolo: https://fedyontheblog.com/2020/07/29/presa-dal-panico/)

Cosa ci ha portato a vivere così? voglio dire, perché ci è sempre sembrato normale vivere indossando gli abiti da: donna, mamma, moglie, fidanzata, amante, crocerossina, lavoratrice, psicologa, badante, donna delle pulizie, infermiera, cuoca, modella di intimissimi e al bisogno “inserisca qui il gettone per una notte di sesso”?

Io mi sono fatta tante volte questa domanda, immagino che l’ambiente in cui siamo nate, la cultura e il folklore locale a cui siamo state esposte, ci abbiano infettato a tal punto da crescere con questo file installato. I media che ci bombardano con queste donne da copertina che oltre ad essere bellissime e leggiadre anche dopo 24 ore di travaglio, riescono a fare le lasagne e mettersi il perizoma con una mano ingessata. Gli uomini che per anni, anzi secoli, hanno saputo tramandarsi il comportamento giusto per tenerci docili e mansuete pronte ad ogni loro bisogno, pretendendo da noi molte più fatiche perché sulla carta erano loro ad andare al lavoro ogni giorno. Nei vari libri e saggi letti pare che questa caratteristica femminile derivi dalla preistoria, gli uomini erano dediti alla caccia soltanto, data come attività molto pericolosa e stressante, mentre le donne “a casa” dovevano occuparsi di tutto il resto. In questo modo i nostri cervelli si sono evoluti in maniera differente, noi multitasking..loro no. Beh, non direi consolante.

Quello che ai miei occhi risulta molto chiaro è che negli anni le donne non hanno mai potuto dire no, se qualche temeraria si azzardava, erano botte e tanto altro. Credo quindi che l’attività multitasking sia stata una sorta di “evoluzione” femminile per prevenire la violenza dell’uomo alfa, il quale sapeva come convincere la “sua amata” a non lamentarsi troppo, era meglio quindi farsi trovare sempre impeccabili per non rischiare di farlo arrabbiare.

Oggettivamente, quante richieste ci vengono fatte al giorno? Quante volte diciamo no? Ho collegato da poco i miei attacchi di panico alla vita “impeccabile” che mi ero imposta da sola di avere, la nuova prospettiva è parte integrante del mio sentirmi meglio. Non è facile, ci sono giorni in cui scelgo di fare “solo la mamma” e mi sento in colpa, come se fossi venuta meno ad uno dei miei compiti primari.

La mia domanda non ha ancora trovato la risposta che cerco.. essere multitasking è veramente una virtù? o è piuttosto una forma di autodifesa messa in atto dalla notte dei tempi verso quel mondo che ci fa sentire sempre “non abbastanza”? E soprattutto.. come si fa a disinstallare dal nostro cervello questo file medioevale?

Vi lascio il link di un libro eccezionale, da leggere, con la prefazione di una delle “mie donne” preferite: Michela Murgia.

https://www.amazon.it/s?k=bastava+chiedere&adgrpid=79869496715&gclid=Cj0KCQjwgo_5BRDuARIsADDEntSs3N_KKTKIDh9phCoHUlMC9LNmfpO4xERdyUoXb_vF1Nu5meey6hsaAqTsEALw_wcB&hvadid=387750654854&hvdev=c&hvlocphy=20570&hvnetw=g&hvqmt=e&hvrand=7143885204944499318&hvtargid=kwd-852270846184&hydadcr=18636_1822916&tag=slhyin-21&ref=pd_sl_93eqb0b2c5_e

Buona lettura e buona riflessione a tutte noi, che ogni giorno usiamo i nostri poteri magici per adempiere a tutti i vari ruoli assegnatici.

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Ho smesso di avere fretta.

“Avrei bisogno di una giornata di 48 ore per fare tutto, in 24 è quasi impossibile”. La mia vita è circa così: sveglia ore 7, vestiti preparati il giorno prima con accessori e scarpe giuste, capelli curati (lisci o mossi, mai lasciati da soli o liberi di essere), trucco partendo dalla skin care fino al rossetto, unghie colorate e si parte con la mia borsa piena di agende (almeno 3), il tutto in 30 minuti di orologio.

Ore 7.30 colazione al bar con due o tre persone con cui inizi anche a dire qualche battuta perché le vedi ogni giorno, poi via subito in ufficio. Lavoro in modo frenetico, sono una donna e sono multitasking, si perché più fai adesso e meno fai dopo, il mio scopo è alzarmi dalla scrivania sapendo che il giorno dopo mi porterò il meno possibile. Nella vita ci vuole fretta, bisogna fare tanto e avere il fiato corto anche da sedute.

Ore 17 via di corsa e pronti per il fitness, si va in ciclabile (sole, pioggia, vento, freddo o neve), doccia veloce, appuntamenti vari con: estetista, osteopata, naturopata, riflessologia plantare, yoga, cena volante e poi un’ora di meditazione forzata per buttare fuori la negativà perchè non riesco mai a dormire (ma dai?). Si va a letto alle 23.30 circa, ma in media dormo intorno alle 2, e se il nervosismo non mi da tregua inizio a pulire il bagno.

I miei compagni di viaggio fissi sono: l’ansia, il fiato corto, panico, angoscia, paura di avere paura, paura di non avere tempo, appuntamenti spesso concomitanti, e tanti tanti soldi per tutti i miei cari specialisti che avevo bisogno di vedere per “stare bene”. Dedichiamo un paio di righe a questi specialisti.. che hanno un incasso solido anche grazie ai nostri stili di vita che ci spremono fino all’ultima goccia; “Fede hai bisogno di vivere nel qui e ora, smetti di organizzarti la vita”.. grazie (ci starebbe bene un’emoticon di whatsapp la faccina con occhi — e bocca __ mi capite?) Ognuno di loro mi prepara la “pozione magica” per drenare, dormire meglio, depurare il fegato, aiutare i reni, rilassare il cuore, lo zenzero, le bacche, i fiori, gli integratori ecc.. io compro tutto.

Per qualche motivo a me ignoto, in mezzo a questo casino di appuntamenti e doveri resto anche incinta, incredibilmente la mia testa va in slow motion immediato, come per difendere quella bambina dalla fretta divoratrice della mamma e così mi passano tutti i disturbi per cui mi stavo curando. Nasce la bimba e le ostetriche mi aiutano ad alimentare nuovamente la fretta, deve assolutamente arrivare il latte. Purtroppo arriva tardi, lei perde troppo peso e di conseguenza non veniamo dimesse il giorno promesso. Finalmente ci portano il primo latte artificiale, la bambina per la prima volta dopo tre giorni non piange e dorme beata, ma io inizio a sentirmi poco bene, sono agitata, nervosa. Mi scoppia la testa, il mio battito cardiaco è troppo alto, chiamano il medico di turno perché sto per perdere i sensi, poi ricordo poco.. solo che mi hanno sedato e portato via la bambina, avevo la pressione 120/180 e un pensiero solo: la mia bambina non mangiava da tre giorni. Vengo dimessa qualche giorno dopo con allattamento misto e ragadi sanguinanti, un calvario. Questo mio stato confusionale scatena mille ansie assopite da tempo, e nei tre mesi successivi dalla nascita la pressione del sangue peggiora fino ad un secondo ricovero ospedaliero.

Siamo ai primi di gennaio e mi portano in ospedale con una forte aritmia e pressione di nuovo alta, resto una notte dentro da sola con i miei pensieri: devo stirare, devo pulire, devo dare il latte alla bambina, devo riprendermi perché il mio corpo ancora porta i segni del parto, perché sono ancora in questo stato? Vengo dimessa il giorno dopo con 7 pastiglie per cuore e pressione. Arrivo a casa e corro dalla mia bimba che ha dormito tutta notte, appena la vedo mi sorride e restiamo insieme nel letto a farci le coccole. Da quel giorno prendo la decisione migliore: basta allattamento al seno. Dopo un mese la pressione inizia a scendermi.

Arriva il Covid e non mi lasciano più avere avere fretta. Non posso più correre in palestra, in ciclabile, dal parrucchiere, dall’estetista, da tutti gli specialisti, basta dormite ad intermittenza perché al mattino “dobbiamo andare”, basta, mi devo fermare. La quarantena non rispetta i miei ritmi, e così mi sono fermata, insieme alla mia bambina. Ci siamo coccolate fino a diventare invincibili insieme, tanto che oggi 1 giugno le pastiglie che prendo sono 1 soltanto, dimostrazione che la fretta mi stava uccidendo.

Si la mia malattia è la fretta e non voglio insegnare a mia figlia che correre ed essere multitasking è il modo giusto per essere riconosciute come “brava”, distruggersi fisicamente per ottenere risultati appaganti? Ma possiamo dirlo veramente? Ma dove stiamo correndo ce lo siamo chiesti? Ci siamo dati uno scopo nella vita? Io dopo quella notte in ospedale mi sono promessa serenità, vivere di corsa non è un preludio di qualcosa di bello che arriverà, è solamente una distruzione che porta all’annientamento. E per favore non banalizziamo questo articolo dicendo “fare figli ti cambia la vita”, no, io stavo rischiando di esplodere per il mio stile di vita multitasking.

Non è avere figli che cambia la vita, nel mio caso è stata la paura di rovinarsi la saluta concretizzata, la paura di non fermare la mia testa perché pensava troppe cose insieme, la paura della notte che mi teneva sveglia troppe ore, la depressione post parto che ha invaso i primi mesi con la mia bambina ma che, tramite il campanello d’allarme della pressione alta, mi ha spinta a chiedere aiuto in tempo. Probabilmente è stato proprio l’arrivo del figlio che ha peggiorato la mia situazione di salute al punto “giusto” per potermi salvare in tempo. Sono le mie nonne che dall’alto mi hanno mandato questa meraviglia di bambina, per salvare una nipote troppo severa con se stessa che si sente sempre in debito con la vita e con il mondo.

Facciamo tesoro della pace che abbiamo sentito in quarantena, ricordiamoci di lei quando ci sentiamo soffocare. Sono convinta che sia stato un modo per dire a tutto il genere umano che stiamo correndo troppo senza una meta.

La favola delle pari opportunità

Questa è la storia di M. una cara amica che lavora in un’azienda del nostro territorio. Sabato sera, prima di dormire, ha voluto inviarmi una mail raccontandomi il suo lavoro e come si è ritrovata “spostata” da un ruolo all’altro. Ci siamo sentite e abbiamo scoperto che a lei sarebbe piaciuto molto che ci scrivessi un articolo, come forma di “riscatto” e io ho sperato me lo chiedesse. Quindi per tutte le M. li fuori, questo articolo è per voi, per far sentire la vostra voce che, per ovvi motivi, deve rimanere silenziosa.

Eravamo in sei nel ruolo di Project Manager in azienda, ognuno gestiva un’area geografica, la mia era quella asiatica (la più vasta), io ero l’unica ragazza.

Il mio titolare si lamentava spesso del fatto che fossimo poche, diceva che le donne in un’azienda erano necessarie soprattutto al centralino. Dovete sapere che la nostra azienda aveva la casa madre in Olanda e una delle innovazioni introdotte dalla nostra sede fu quella di togliere “la centralinista”, ruolo veramente avvilente affidato sempre e solo a donne, perchè si sa che la donna sorridente è sinonimo di dolce accoglienza. Il centralino era automatizzato al piano terra, ci si presentava e rispondevano dall’Olanda parlando in italiano, contattando poi l’ufficio compentente.

Questa novità non fu per niente gradita dal nostro titolare, sosteneva che l’arrivo di visitatori in azienda era un momento topico che andava impreziosito con l’accoglienza di un sorriso femminile che li avrebbe condotti nell’ufficio interessato, offerto un caffè, fatto una fotocopia, fornito biglietti da visita ecc. Quando sentivo queste parole mi immaginavo un ufficio del 1950 in bianco e nero con la segretaria d’azienda che faceva la stenografa.

Avevo legato molto con i miei colleghi d’ufficio, spesso uscivamo insieme per una pizza o per una birra, approfondendo l’amicizia ne risultò che ero l’unica laureata ma nonostante questo non ero ancora riuscita ad arrivare al loro stipendio, forse perchè ero stata assunta dopo pensai. Col tempo poi imparai che non era questione di “quando” ma di chi, la mia paga base era più bassa della loro e, trovandomi su questo blog, non ho bisogno di spiegarvi il perchè.

Nonostante il nostro lavoro fosse simile, mi trovavo spesso la sera ad uscire per ultima, oltre al mio ruolo di gestione progetti mi veniva chiesto di gestire anche le prenotazioni alberghi dei clienti, i taxi, i ristoranti, fare acquisti per le mogli ecc. Il mio capo diceva sempre: “dai M. ti ci vogliono 5 minuti per farlo, le donne sono multitasking”. In media arrivavano 2 gruppi di clienti a settimana e gestirli in tutti i movimenti era un lavoro a tempo pieno. Ho dimenticato di dire che il mio capo era molto conservatore, quindi dopo avermi fatto accompagnare i clienti in sala riunioni mi diceva: “M. senti se i signori gradiscono qualcosa”, ed ecco che con carta e penna prendendo le ordinazioni e scendevo alla macchina del caffè con il mio vassoietto. Si perchè in Olanda il ruolo di centralino era superato, ma per noi in Italia (lo dico al presente indicativo) è ancora un must have. (nda: Il problema non è il centralino, che ritengo essere una mansione di una certa importanza svolta indistinamente da maschi o femmine, ma tutte le mansioni di contorno che vengono attribuite solitamente a chi ne occupa la posizione).

Terminata tutta questa gestione clienti, riprendevo la mia scrivania dove le mail avevano superato il centinaio e spesso i clienti scocciati per la mia lentezza si lamentavano. Mi trovai spesso nell’ufficio del titolare per spiegare come fossi sott’acqua, il mio ruolo di Project Manager era veramente impegnativo e prenotare un aereo urgente mentre stavo facendo altro non era d’aiuto. La sua risposta era sempre la stessa: “è solo questione di organizzazione”, “non credo, i miei colleghi non devono chiamare l’albergo o portare il caffè, perchè io si?”, “vorresti dire che portare un caffè ogni tanto è un disonore? oppure che chiamare 5 minuti un albergo ti porta via tempo? dai per favore.” Cosa potevo rispondere di fronte a queste cose? Ricordo che avevo una sensazione di inadeguatezza, mi sentivo ingrata, come se il mio lavoro fosse un dono del cielo, dentro di me dicevo: “dai non lamentarti, hai un lavoro in ufficio, pensa a quante altre tue amiche sono ancora disoccupate”.

Questa situazione andò avanti per circa tre anni, lavorando circa 10 ore al giorno senza pausa pranzo, avevo perso 6 kg. Ero esausta. A fine anno il titolare mi convocò in ufficio dicendomi che in effetti aveva capito la situazione, avevo bisogno di aiuto. I clienti si lamentavano perchè spesso non rispondevo rapidamente, seguivo i progetti ma ero indaffarata anche con altro (nel mentre era arrivato un telefono fisso sulla mia scrivania con funzione di centralino e indovinate chi doveva rispondere?), a gennaio sarebbe arrivato un aiuto per me.

Al rientro dalle vacanze di Natale in effetti si arrivò un aiuto, la decisione presa fu quella di sollevarmi dall’incarico di Project Manager, lasciandomi il ruolo di “segretaria aziendale” con mansione di: centralino, organizzazione viaggi, gestione clienti, alberghi, aerei, taxi, back office e supporto ai colleghi e al titolare. La decisione fu una ferita aperta che in nessun modo riuscirò mai a far guarire, ricordo che quando chiesi spiegazioni mi fu risposto: “lo sai che quando chiamano i clienti per i progetti preferiscono sentire la voce di un tecnico, ci sono tanti ruoli più adatti per te qui in azienda, vedrai che così sarai più tranquilla e il lavoro ti piacerà, poi in tanti mi hanno riferito che spesso rispondi male, sei scorbutica, poco collaborativa, quindi ho pensato che allievarti da certi compiti fosse un modo per te per essere più sorridente”.

Si perchè essendo una donna multitasking i lavori sulla mia scrivania erano tantissimi, non riuscivo a fare tutto e spesso mi lamentavo, ero stanca, svogliata e avevo perso la grinta di sempre, diventando agli occhi degli altri “acida e silenziosa”, quindi sollevandomi dal ruolo per cui ero stata assunta, la ditta mi stava facendo un enorme favore, io ingrata non avevo detto neanche grazie.

M. lavora ancora in questa azienda, ecco perchè tutto quello che ho scritto è in forma vaga e anonima, il suo lavoro purtroppo non è cambiato negli anni, ora ha anche due figli e sappiamo bene come non ci sia mercato per noi mamme. Voglio scrivere un paio di righe facendo un copia incolla direttamente dalla sua mail:

“Piango quando penso a quanto hanno speso i miei genitori per farmi studiare, ricordo l’entusiamo della mia laurea e le speranze di una giovane ragazza realizzata. Odio svegliarmi al mattino per andare al lavoro, odio il mondo del lavoro in Italia per come mi ha messo in un angolo da subito. Non voglio prediche o consigli su quello che avrei potuto fare. Voglio solo gridare quanto mi sento fallita. Troppe volte mi sono trovata a piangere come una bambina emotiva nonostante i miei 38, e troppe volte ancora mi sento svalutata di chi lavora con me”.

La posizione della donna nel mondo del lavoro italiano è da “terzo mondo”, la colpa principale non deve essere data alle singole aziende, piuttosto allo stato che non sta in alcun modo incentivando e aiutando le donne e le aziende. Credo anche che le donne siano da tutelare nel mondo del lavoro con normative dedicate perchè attualmente la storia delle pari opportunità resta solo una bella favola. Il nostro ruolo è sempre stato di contorno, la maggior parte dei manager sono uomini, i politici sono quasi tutti uomini, le stesse task force nominate da Conte in questo momento pandemico sono tutte composte da uomini, sapete perchè? Perchè le donne sono nelle retrovie a lavorare, A FARE, sempre in passo indietro, in silenzio, la posizione che da sempre ci hanno riservato.

Io ringrazio M. per l’occasione che mi ha dato, avrei voluto scrivere tante cose in merito a questo tema, ma utilizzare una storia vera è stato il modo migliore, così da riflettere senza utilizzare opinioni o parole scomode che allo stato italiano danno solo motivi in più per metterci in un angolo. Vorrei aggiungere che fortunatamente questa è la singola situazione specifica della mia amica, sono certa che la maggior parte dei posti di lavoro ha superato queste dinamiche bersaglianti i ruoli femminili.

Non è un gran riscatto, ma spero che per una volta tu possa sentire l’importanza che meriti.

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