Lo spazio che meritiamo.

Iniziamo con un luogo comune, dirlo, ripeterlo, potrebbe solo aiutarci ad assimilare il concetto: le donne ai vertici, di qualsiasi attività, sono sempre molto poche rispetto agli uomini.

Chi di loro riesce ad arrivare ai vertici deve rispettare standard molto elevati: essere impeccabile, eccellente, perfetta nel ruolo affidato e il più delle volte dormire a fatica per la responsabilità che si sente addosso, per il pensiero di mantenersi tale. Ci avete badato invece a come sono gli uomini agli stessi irraggiungibili (per noi) vertici? Sono NORMALI, sono esseri umani a cui è anche concesso un errore ogni tanto, pochi sono gli impeccabili ed eccellenti, sono persone qualsiasi, alle volte con una lunga lista di difetti, a cui non viene richiesto “di essere qualcosa” in più rispetto al loro limite.

Aggiungiamo anche che spesso, questi uomini, sono arroganti, sicuri di se, certi di meritare a pieno quel ruolo. Capaci di guardare tutti dall’alto verso il basso, non sanno cosa sia l’umiltà, non conoscono la fatica di affermarsi e di raggiungere obiettivi con i bastoni tra le ruote, non sanno cosa vuol dire fare di più del dovuto per essere riconosciuti, perché in quanto uomini non hanno nulla in più da dover dimostrare, a differenza nostra.

Ci pensate ad una donna in una posizione importante nelle sue vesti “normali”? Ecco, il fatto è proprio questo, e per spiegarlo mi riallaccio alle famose pari opportunità che ancora suonano come barzelletta alle mie orecchie. Per quale motivo a me viene richiesto il doppio lavoro, il doppio della fatica, sacrifici familiari ecc.. per poter raggiungere un ruolo importante?

E’ possibile avere le stesse opportunità date agli altri? Possibilità di essere ai vertici in modo normale? Senza dover sputare sangue ad esempio? Le donne che sono arrivate in alto hanno dovuto mettere da parte davvero tanto, fare scelte dolorose per dimostrarsi “degne”, sacrifici così grandi da far piangere nella solitudine della sera. La donna che arriva in alto deve essere la migliore, solo eccellendo può ambire a un ruolo “maschile”, perché si un qualsiasi ruolo di dirigenza è ancora considerato da uomo.

L’Italia è invasa da uomini che occupano posizioni di potere, di privilegio, basti pensare al nostro parlamento, il presidente del consiglio, il presidente della repubblica; oppure possiamo guardare anche alle più piccole realtà, le aziende dove lavoriamo, il nostro comune, la nostra provincia, quante donne vedete ricoprire ruoli di potere? Diciamo poche o quasi nessuna? Direi di si. L’Italia, per i suoi pregressi storici, è uno dei paesi più retrogradi relativamente al ruolo della donna nella società, siamo ancora una minoranza in termini di istruzione e lavoro, è ancora normale che una donna, dopo essere diventata mamma, lasci il lavoro perché incompatibile con l’esigenze dei bimbi. L’Italia è ancora un paese che non tutela la figura della donna o della mamma, perché nelle posizioni di potere ci sono quasi sempre solo uomini, che non conoscono queste fragilità e neanche si prestano a capirle.

Non c’è vittimismo in questo discorso, solamente realismo di fronte alle diverse opportunità che ci vengono date, noi abbiamo bisogno di spazio in questa società, la nostra lungimiranza, la nostra intelligenza mixata con la sensibilità che tanto ci viene criticata, sono doti molti utili e preziose nel mondo in cui stiamo vivendo, pieno di diversità e fragilità che, un uomo, non essendo mai stato fragile o in minoranza, non potrebbe mai vedere.

Smettetela di chiederci di essere eccellenti nel ruolo che ricopriamo, quando intorno a noi ci sono solo uomini che svolgono le loro mansioni in modo normale, lasciateci essere come siamo, senza pretese extra solo perché siamo donne e siamo arrivate in un posto che “solitamente” è impegnato da una desinenza maschile.

Siamo un bene prezioso, lasciateci essere parte attiva in questa società, vogliamo l’opportunità di essere normali anche noi.

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Due chiacchiere e un caffè.

” Te lo dico in tutta onestà, più ci penso e più mi rendo conto che facevo un lavoro di merda, nella mia vita ne ho cambiati diversi, facendone di ogni durante gli anni universitari. Nessuno era avvilente, frustrante, demotivante come quello, ad un certo punto mi ero anche convinta di aver preso quel posto di lavoro come sfida personale, sai bene che non amo perdere o essere sconfitta da qualche evento, quindi mi dicevo, NO NO VAI AVANTI NON PUOI MOLLARE, HANNO DATO QUESTO RUOLO A TE, SIGNIFICA CHE CREDONO NELLE TUE CAPACITA’. Ma quante cazzate mi pompavo nella testa”.

“Quini pensi sia questo il motivo per cui non hai mollato prima? Voglio dire sei rimasta li diversi anni, alla lunga un lavoro così logora no?”

“Assolutamente si, anzi ti dirò, se non fosse stato per quello stronzo, falso e arrogante che mi ha letteralmente rubato il ruolo, facendomi diventare un surrogato di sua assistente, molto probabilmente sarei rimasta ancora ed ancora, Se dovessi incontrarlo di nuovo, cosa che mi auguro non capiti mai, dopo una scarica di parolacce, alla fine concluderei con un grazie, non lo mangi quello? Posso?”

“Certo certo, finiscilo pure, ma fammi capire, cos’era che ti ha tenuto li tutti quegli anni? Non trovavi altro lavoro?”

“No no anzi, c’erano giornate in cui, presa dallo sconforto, cercavo un’alternativa, e sai cosa? Ho fatto un paio di colloqui ma il fatto è che io mi alzavo tutte le mattine sorridente e felice, era un lavoraccio si, ma io in quell’ufficio avevo trovato l’oro. Non so fino a che punto riesco a spiegarti a parole cos’eravamo noi, davvero che merce rara. Parlando personalmente l’80% del lavoro lo fanno i colleghi, ed eccoci arrivati al nodo della questione, sono stati loro la mia ancora di salvezza.”

—– “Vi porto altro ragazze?” ——.

“Per me no grazie” – “Anche io a posto così, ci porti il conto per favore?”

“Ok i colleghi li hanno tutti più o meno, ma avresti potuto trovarne altri validi in qualsiasi altro posto no?”

“Dici? Io non credo. Io arrivavo presto in ufficio e ognuno di noi aveva una particolarità che alle 8 del mattino era già stampata in faccia, c’era lui, appena arrivato, con i postumi di un campari in più della sera prima, nonostante fosse solo martedì, sorrideva e mi raccontava: si si dico sempre questo è l’ultimo, invece alla fine arrivi a casa spaccato in due, che hai perso il conto di quanti ne hai bevuti! Ma io sono uno di compagnia lo sai! Se c’è da bere si beve. Poi c’era l’altro che arrivava stanco, occhio rosso e appesantito, ho bisogno subito di un caffè diceva, si perché aveva perso il conto delle notte insonni con il suo bambino. Prendere il caffè con lui era una delle mie cose preferite, ci raccontavamo le novità e ridavamo insieme di quello che era successo il giorno prima al lavoro con quei colleghi che amavamo decisamente poco. Poi arrivava uno degli ultimi, in ritardo ed arrabbiato perché la sera prima giocando a beach la caviglia aveva dato ancora problemi, e le sue performance o erano perfette oppure non avevano senso di essere. Su uno dei tavoli in ufficio c’era sempre un vassoio di brioches perché il più mattiniero di noi ce le portava, e ne mangiava almeno due. Quando qualcosa andava particolarmente male e me lo si leggeva in faccia, ecco arrivare una notifica che diceva: ti vedo male oggi, tutto ok? Potrei perdere una giornata raccontandoti un briciolo di ognuno di loro. Eravamo proprio sincronizzati, dove non arrivavo io c’era uno di loro e viceversa, ogni giorno avevo computer e telefono intasato di cose da fare e già alle 8.10 del mattino la pressione alle stelle. Ogni mail, chiamata o rottura di palle necessitava del supporto di qualcuno di loro, e io avevo imparato a chi chiedere aiuto in base alla richiesta che arrivava. Mi sentivo in una giungla, piena di sorprese e animali feroci, ma noi eravamo una squadra, nessuno affondava o veniva attaccato, perché il branco ci proteggeva. Eravamo insieme. E quanto si rideva.. tantissimo, ci divertivamo con poco, un po’ per non soffocare dentro quel vortice di lavoro malsano che si era creato, un po’ perché il nostro feeling era speciale. Non passava giorno in cui non fossi grata per quelle persone, per quelle anime passate li e fermatesi. Sarà che eravamo più o meno tutti della stessa età, puliti, senza mire di rivalsa o scalate sulle teste degli altri…”

“Beh no questo no, perché se lui non ti avesse pestato i piedi scavalcandoti..”

“Certo si, una mela marcia c’era, marcissima, mi spiace averlo vissuto sulla mia pelle, ma ci sta eh? voglio dire, valeva la pena disilludersi da quell’isola felice in cui mi trovato, discostando la mia attenzione dal lavoro che mi stava mangiando, se no sarei ancora la!!”

“Poi? sarà stata dura ripartire da un’altra parte immagino”

“Tantissimo, staccarmi da loro, quelli buoni chiaramente, è stato quasi come crimpare un cordone ombelicale, ho pianto tantissimo, non mi sono mai capacitata della fine di quel periodo, nonostante tutta la mia vita, non solo quella lavorativa ne abbia giovato. Cioè cambiare lavoro è stata la cosa più salutare fatta negli ultimi anni, ma questo non toglie l’amore che avevo verso quelle persone, amici, si li chiamo amici perché quello erano. Mi sento di essermi portata via un pezzetto di ognuno, e viceversa. Alla fine poi il tempo ha messo al suo posto ogni cosa, eravamo speciali insieme, ma l’avidità sgretola. Ci siamo spostati tutti, o quasi, non credo gli ultimi tardino molto a fare lo stesso, si è pur sempre creata una ferita che non si sta cicatrizzando, e la necessità di aria fresca è arrivata per ognuno di noi”

“Offro io, se no paghi sempre tu.. dai per favore”

“Figurati, è da un’ora che parlo e che mi ascolti, il minimo è pagarti la colazione!”

“Insomma quindi alla fine hai capito che doveva andare così?”

“Ma non so dirti che morale estrapolare da questa esperienza di vita, certo una cosa l’ho imparata, eravamo un caso raro, quindi non ho più lasciato nessun collega, arrivato dopo, avvicinarsi così tanto a me, nonostante abbia metabolizzato che è stato un passaggio della vita, la sofferenza per quella rottura, per quello strappo, è stata fortissima”

“Beh mai dire mai, magari troverai altri colleghi con cui condividere la vita allo stesso modo”

“No ma non fraintendermi, i colleghi attuali che ho sono fantastici, collaborativi, simpatici, ma sono colleghi capisci cosa voglio dire? Non mischierò mai più le cose. Non ne vale la pena. Per loro era diverso, per loro ne è valsa la pena, non capitano tutti i giorni persone così. Anzi, persone così non capitano, sono li per un motivo.”

“Non ci credo, ti vengono ancora gli occhi lucidi?! Dopo quanto? 4-5 anni?” – “Dovevano essere speciali davvero”.

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(Racconti e quattro chiacchiere)

Conformarsi, anche solo in apparenza.

Potevo essere tante cose nella vita, pensiero comune a tanti credo. La mia vita ben incanalata nelle attività comuni, ha però questo aspetto goliardico direi del voler scrivere “cose”. Storia ormai nota la mia, letta e riletta, in tantissimi libri di VERI SCRITTORI, chi fa il cassiere, il fioraio, il panettiere, l’operaio, che allo stesso tempo, impronta e mette le basi per la sua vera passione, scrivere. Per farlo ci sono vari passaggi comandati ai quali mi sto attenendo scrupolosamente:

  • leggere, sempre, tutto: dalla ricetta della panna cotta, al quotidiano di provincia, fino ai libri sul Bosone di Higgs, perchè mi hanno sempre insegnato che leggere solo ciò che ci piace, non può arricchirci degli stessi contenuti di ciò che spesso non ci appartiene,
  • studiare: ho investito, sto investendo ed investirò sempre tanto tempo per la mia “formazione” come scrittrice. Possiamo anche possedere un talento, ma se non impariamo a coltivarlo, potrebbe anche non fiorire mai. Pensiamo ad Harry Potter, se non avesse studiato, come avrebbe potuto imparare a gestire tutta quella magia ereditata dai genitori?!
  • scrivere: e in questa attività ci voglio includere varie forme di scrittura; quella personale sotto forma di articoli, qui contenuta all’interno del blog; pagine e pagine di racconti, romanzi, poesie che un giorno dovrò decidermi a sottoporre ad occhi diversi dai miei; ma anche la scrittura conto terzi, ossia “lo scrivere per”. Ecco oggi sarà proprio su questo ultimo punto che voglio soffermarmi, il lavoro di “stage formativo”, o la più comune gavetta.

Uno scrittore non praticante deve imparare fin da subito che dovrà prestarsi a praticare per terzi per adempiere alla sua parte di formazione, accettando critiche e scendendo sempre a compromessi. Scrivere romanzi o libri che possano vendere milioni di copie dovrebbe essere il mio obiettivo finale, e lo è, ma credo, in tutta onestà, che uno scrittore possa definirsi tale, quando riesce a giocare così bene con le parole da poter intavolare un qualsiasi argomento con la padronanza di chi ne conosce ogni aspetto.

Il mondo della scrittura è fatto di domanda e offerta come qualsiasi campo. Chi domanda chiede un pezzo di tot battute da inserire in un giornaletto locale, un sito di vendita diretta, un depliant informativo, una brochure promozionale; chi offre deve riuscire a produrre il testo nel mondo più accattivante possibile, strizzando le parole nello spazio limite consentito, per poi attendere il verdetto finale.

L’aspetto più difficile di tutto questo lavoro, dopo il riuscire a farsi pagare in modo onesto, è quello di accettare le critiche, almeno per me. Mi sono ritrovata spesso a scrivere di tematiche che sentivo mie, lasciando trasparire quel livello emozionale che va oltre il consentito, ricevendo sempre indietro il lavoro perché troppo articolato, altre volte ho dovuto apportare modifiche a quello che il mio flusso di pensieri voleva esprimere. “Questa frase non può piacere, trova un modo più polite per dirlo”, oppure “il tema è quello giusto, ma bisogna sistemare tutto il contorno”; non so se riesco a spiegare come diventa difficile per me strappare quella parte così mia e personale dal foglio, per poter scrivere quello che viene richiesto e comandato sulla base di battute, spazi e contenuti.

Mi sto lamentando di come il mercato mi richieda di uniformare la mia scrittura alla massa generale, so bene che se voglio scrivere devo anche sapere fare questo, abbassare la testa e decidere di farmi violenza per oltrepassare il confine. Mi sto lamentando degli effetti che ha su di me la critica esterna; considero la scrittura un atto fatto di anima, scrivere è come vivere in una dimensione parallela; com’è possibile che qualcuno possa, in maniera obiettiva e neutrale, giudicare qualcosa che viene da così lontano e profondo? Ecco questi sono scogli, ostacoli insormontabili per me.

Quando scrivo sento l’adrenalina scorrere veloce nelle vene come se stessi vivendo momenti indimenticabili e intimi che solo io posso sentire. Riportare ogni singola parola su un foglio, sapendo che poi dovrò rimettermi a qualcuno che in quel momento sta bevendo un caffè alla scrivania, annoiato dal mondo e dal numero di paginette che ogni giorno riceve, pronto a sbuffare di fronte all’ennesima composizione scritta che chiede una possibilità, è davvero avvilente e frustrante.

I miei lavori contengono sempre una parte autobiografica, che sia un momento o un sentimento, vederli bocciati è un po’ come se fossi io ad essere respinta da quel mondo, sapendo che se mi fossi obbligata ad essere più o meno di così avrei potuto fare il passo oltre.

Oggi il mio lamento è così, confusionale, come il mio animo, i miei capelli e i miei occhi. Zero formule magiche per la conclusione o la scelta di direzione, l’unica certezza è che scrivere resterà sempre la mia vendetta verso un mondo che mi ha troppo spesso bocciato per il mio mancato conformismo.

“Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto” – (Isaak Babel’, Guy de Maupassant, 1932)

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Ascoltiamo cosa vuole dirci l’invidia.

L’invidia è qualcosa di obiettivamente spiacevole, si insinua dentro di noi e lavora, macina, deteriorandoci, portandoci ad idee e ragionamenti del tutto poco amorevoli. E’ un sentimento che si prova nei confronti di un’altra persona, che possiede doti o beni che vorremmo avere noi, spesso, almeno nel mio caso, la si avverte perché non si tollera che altri abbiano qualità pari o superiori a noi.

Ho scelto questo argomento per semplici motivi, il primo è che io stessa mi sono trovata troppo spesso vittima di questo sentimento, come al solito quindi voglio condividere queste sensazioni con voi, il secondo è che lo si addita sempre come un sentimento negativo ma, valutato in chiave diversa, ha aspetti estremamente costruittivi.

Vorrei entrare in un caso un pochino più specifico, uno dei miei primi articoli, Eva vs. Eva (https://wordpress.com/post/fedyontheblog.com/142) parlava proprio di questa invidia concorrenziale tra donne, cercando anche di entrare nel merito della questione e analizzandone le origini. Oggi volevo riprendere l’argomento proprio perché alcuni aspetti mi incuriosiscono molto e vanno affrontati anche per andare ad aumentare e solidificare l’armonia tra donne, troppo spesso messa da parte.

Art Print di Lieke Van der Vorst.

L’invida tra donne esiste da sempre come “gioco” della nostra società, ovviamente la solita colpevole, vuole farci credere sia parte integrante della vita femminile, lottare, competere, vincere contro le altre. Ma il motivo? Qualcuno ha capito quale dovrebbe essere il premio per chi vince? Nessuno lo ha capito, perché ogni singola donna è portata al confronto verso una sua simile, confronto in termini di felicità soprattutto. Conosco donne che si sono costruite un impero con le loro mani, nonostante questo invidiano la mamma senza lavoro che vive in un piccolo trilocale gioiosa con il suo bambino, come può essere felice lei? Se io che mi sono guadagnata un impero non lo sono?

Il confronto è la parola chiave, perché noi donne siamo sempre le più osservate e messe alla gogna in caso di mancate capacità, e i giudici più severi siamo noi. Vi faccio il mio esempio, ho partorito da un anno e qualche mese e mi viene naturale guardare mamme che hanno partorito da molto meno, che però sono già rientrate nei loro jeans pre figlio. Provo invidia si, soprattutto perché sembrano felici e più sicure di se. La società mi ha insegnato che se voglio riesco a dimagrire dopo la gravidanza, quindi il fatto che io non lo stia facendo mi fa sentire sbagliata, invidiosa di chi lo ha fatto.

Devo però ammettere che i tipi di invida che provo sono molti, oltre a quello detto sopra ne ho provati altri, uno dei quali abbastanza salutare ed è su questo che voglio fare leva; si tratta di invidia verso donne che stanno costruendo tanto, donne a cui vorrei somigliare quindi, che mi stimolano e sono diventate degli esempi. Sono donne normali, che si sono tirate su le maniche e hanno cambiato qualcosa nella loro vita che le spegneva, voltando pagina, decidendo che “adesso o mai più”, hanno preso quel treno che stava passando, hanno fatto quel passo tanto pauroso che sembrava fosse impossibile fare, quelle donne che si sono impegnate per capire cosa mancava nella loro vita.

La chiamo invidia salutare perché ben diversa dall’altro tipo di cui vi ho parlato, in cosa sarebbe diversa? Beh questa invidia non è dettata dagli stereotipi o dalla società maschile in cui viviamo, anzi è stata una forma di sentimento stimolante che mi ha portato a farmi una domanda: “posso farlo anch’io?”, la risposta è si. Uscendo dai canoni prefissati di questa società limitata, mi sono detta che se volevo fare altri passi potevo, da tempo avevo in testa quell’idea di studiare quell’argomento che tanto mi piace, quindi?

Sono uscita dagli schemi legati allo studio in un’aula con il docente di fronte, sapevo di faticare perché ho una figlia piccola, un lavoro, una casa, tempo pochissimo, ma sono io che ho in mano la mia scelta e posso incanalarla nel modo in cui ritengo opportuno, quindi sono partita e sto facendo questo percorso ormai da aprile con esami e lezioni online. Ecco il buono dell’invidia sana, stimola al miglioramento.

Cosa rende un sentimento come l’invidia positivo? A parer mio, lo diventa se è qualcosa che ci porta a migliorarci, a crescere, se è un fuoco che abbiamo dentro noi. Tutto l’opposto dell’invidia che nasce per colpa di una società che mette a confronto le persone, facendole sentire inadatte, mettendo in competizione donne così da stimolarle all’acquisto, al consumo di “cose” per migliorare e diventare le medaglie d’oro indiscusse.

Il passo è piccolo ma una volta fatto sembra di aver camminato una vita intera, ho passato così tanto tempo seduta a far l’osservatrice, guardare le altre persone fare progressi, intestardirmi nel dire che io non ne avevo bisogno perché stavo bene così, quando in realtà avevo solo paura di fallire. Mi rendo conto solo ora della mia mente piccola e chiusa, che male c’è nel fallire? C’è più male nel non provarci, nello stare fermi ad invidiare in modo cattivo gli altri che ci provano, deridendoli magari.

Che potere ha una mente aperta che si mette in gioco e si da una seconda possibilità? Non fermiamoci, nella vita possiamo fare tanto, quel passo sembra tanto faticoso, ma in realtà sarà la cosa più bella e soddisfacente che ci sia. Ascoltiamo cosa deve dirci la nostra invidia, potrebbe essere la strada nuova che cercavamo.

Art Print di Lieke Van der Vorst.

Aggiungo anche che il mio lato femminista, che sto con amore coltivando, vuole sostenere, appoggiare, credere, spronare tutte le donne che nel mondo “ci stanno provando”, insieme possiamo fare tanto.

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“Il successo non è definitivo, il fallimento non è fatale: ciò che conta è il coraggio di andare avanti” (Winston Churchill)

SMART MAMME 2.0

Potrei scrivere una prefazione degna di quello che andrete a leggere, ma questo pezzo, scritto d’impeto da una mia cara amica, è già perfetto così e credo non abbia bisogno di aggiunte, se non le virgolette per aprire e chiuderlo.

“Durante un colloquio chiedere ad una donna se ha o se vorrà figli è ancora legittimo? Un’aberrazione che ci riporta nel 1912. Cosi iniziava una discussione che ho letto su LinkedIn stamattina alle 6.00, durante l’ennesima poppata di mio figlio.

Giusto, sacrosanto. L’ho sempre pensato e anzi ho sempre combattuto perché questa concezione sparisse sia nei miei confronti, che in quello di colleghe o collaboratrici. Eppure, stamattina, mi sono fermata un attimo a riflettere. Fare questa domanda oggi, in questo momento di difficoltà assurda che stiamo vivendo, ha ancora solo una dimensione di inaccettabilità? Parliamone. Vi dico solo una parola. SMARTWORKING. Lavoro agile, intelligente. Fantastico. Flessibile. Puoi lavorare dove, come e quando vuoi. Si ma se hai i figli? E magari senza aiuti esterni? Aggiungiamo anche una casa da gestire nonostante con la collaborazione di tuo marito?

Ho sentito leggende di donne felicissime di svolgere smartworking da casa perché mentre impostano una call si fanno la maschera ai capelli, mentre parlano al telefono col capo si riescono a sistemare lo smalto, mentre fanno un briefing con le airpods alle orecchie, mettono su un brasato. Smartworking, smarthousing, smartcooking, tutto insieme. Poi riescono addirittura a fare pausa caffè comodamente in ciabatte. Una cosa mai vista. Tutte queste esperienze fantasmagoriche però vengono da chi non ha la compagnia dei figli a casa. Poi penso, magari sono così negativa perché io ho i figli piccolissimi e sono difficili da gestire. Purtroppo no, perché se hai un figlio grande che magari deve usare il pc per la didattica a distanza, è pure peggio. Oltre a dover condividere gli strumenti (non tutti sono cosi fortunati da avere due PC), devi trovare il tempo di seguirlo, controllargli e compiti e tenerlo stimolato perché non diventi lobotomizzato e rincoglionito di fronte ad uno schermo. Non sto dicendo che non si possa fare, ma io ho la perenne sensazione di mettere dei buchi, di raffazzonare, di non fare bene niente, sia come mamma che come lavoratrice. Tra una call e l’altra c’è la colazione, nel mentre sotto le unghie invece dello smalto residui di cacca acida che devo cambiare ogni due ore, durante un briefing imposto una poppating, prima di inviare una mail devo fare un controling che la plastilina non finisca nell’esofago, poi devo preparare il pranzing la merending e infine la cening. Ma come cavolo si fa?”

Foto poco realistica, nessuna donna sorriderebbe beata in questa situazione.

Siete d’accordo con me che questa bellissima e verissima testimonianza non aveva bisogno di presentazioni?

La pura e vera semplice realtà, io sono fortunata, ho l’aiuto di mia mamma nella gestione della bimba quindi faccio parte di chi fa smart working da casa, passando le sei ore più belle e rilassanti della mia giornata, ma non per tutte è così.

La testimonianza, centro nevralgico di questo articolo, vuole dar voce alla quantità pazzesca di mamme che si trova a dover diventare SMART in tutto, mettiamoci per un attimo nei suoi panni, un bambino alle prese con la DAD e uno appena nato che ha bisogno di ogni cura possibile, un lavoro da gestire, una casa, senza aiuti esterni. Questa SMART VITA quanto può fare bene ad una mamma alle prese con una montagna di responsabilità? E al giorno d’oggi è davvero possibile conciliare lo smartworking con la smart realtà che ci hanno destinato?

Siamo uno dei paesi con crescita demografica negativa più accentuata, e ci sono ancora UOMINI che fanno i politicanti che insistono sul fatto che le donne dovrebbero cercare di fare più le mamme perché questo è un paese di vecchi. Come si fa? Quante donne dopo aver letto questa esperienza possono davvero sentirsi stimolate a fare figli?

Esattamente dieci anni fa, durante uno degli ultimi colloqui di lavoro fatti, mi è stato chiesto: “Lei vuole figli nel breve termine? Oppure può garantirmi che per almeno due o tre anni non ne farà?”, non mi sono scandalizzata molto di fronte a questa domanda, era il quinto colloquio in un mese e ogni datore di lavoro (tutti uomini) mi avevano fatto la stessa domanda. All’ultimo fatto ho risposto no, figli non ne volevo, il giorno successivo mi è arrivata la telefonata che confermava l’assunzione.

Sono rimasta incinta esattamente 8 anni dopo e senza ragionarci molto, perché razionalmente, vedere le fatiche che fa una mamma, è un incentivo a non riprodursi e l’idea di averne magari un secondo mi terrorizza in termini di “gestione”.

Io vivo in un’isola felice, lavoro da casa con titolari (tra cui una donna, fattore MOLTO RILEVANTE) che mi danno libertà di gestione, e nonni disponibili, ma quante possono dirsi fortunate come me?

Ci si alza al mattino annaspando e si parte per una giornata piena di punti di domanda, ce la farò oggi a fare quel lavoro che mi hanno chiesto di completare con urgenza? Ma se il bambino come ieri non riesce a dormire, come faccio a finire? E se salta ancora la connessione internet come si fa con la DAD? Il pannolino chi lo cambia se io sono nel pieno del meeting? Poi finisce che la riunione si fa senza di me perché “come al solito il bambino urla e si è scollegata”. Arriva la sera con la sensazione di aver messo pezze ovunque, lavorando in modo mediocre, con sensi di colpa versi i tuoi figli perché non ti senti di essere stata una brava mamma attenta ai loro bisogni, sensi di colpa verso il tuo ruolo di “donna di casa” perché i letti sono ancora da fare, i piatti sporchi ancora sul tavolo e la lavatrice da svuotare. Arriva sera e ti senti solo le spalle pesanti, i capelli sporchi ma il bambino ha sonno e anche oggi rinuncerai a te per seguire lui.

Attualmente la giornata standard di una mamma prevede:

  • Lavoro da casa,
  • Lavoro da mamma con figli in casa,
  • Lavoro di gestione casa,

Questa è la normale routine, a cui dobbiamo aggiungere le urgenze sopravvenute:

  • Bambini ammalati, bambini che non vogliono stare davanti al pc, strumenti per la DAD che non funzionano bene, chiamate urgenti e riunioni dall’ufficio, urgenze lavorative, cacca acida che arriva fino al collo, lavandino otturato dai capelli, pranzo da cucinare, volete aggiungere altro?!
Anche qui foto poco realistica, ma non ne esistono diverse, si sa, le donne devono sorridere per essere belle.

Quando potremo anche noi tornare dal lavoro alle sei di sera, coricarci sul divano in attesa che ci preparino la cena? “Ho lavorato tutto il giorno, sono stanca” Perché il “fare la mamma” non viene percepito come un lavoro? ma più come una task standard che appartiene solo alle mamme ed è parte integrante del ruolo di donna? Come dire: “si ok fai la mamma, ma poi che lavoro fai?” Come se fare la mamma sia una cosa da niente! Ma stiamo scherzando?!

Care mamme, questo articolo parla di noi, perché nessuno lo fa, si parla dell’economia in ginocchio, si parla delle zone rosse, arancioni, gialle, si parla dei mercatini di natale che quest’anno non ci saranno, ma nessuno parla del ruolo da super eroi che ci siamo trovate addosso anche questa volta. In tutta la società noi e i nostri figli siamo i soggetti più schiacciati, ovviamente mai interpellati. Chi decide e gestisce sono sempre uomini, solitamente i meno coinvolti nella vita e nella gestione familiare, perché sappiamo bene tutti che i figli sono delle mamme.

Oggi abbiamo scelto di darci voce, in questo periodo difficile, siamo le persone più forti, coraggiose ed energiche che ci siano, nessuno ne parla, ma superiamo prove estreme ogni giorno.

Un grazie alla mia amica Anna per il vivace, sarcastico e realistico pezzo che mi ha scritto.

Saluti care mamme, vado a fare la smart cacca intanto che la figlia con la smart febbre mi lascia un pochino di smart tempo!

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L’arte del sentirsi incompresi.

Essere riconosciuti, esseri VISTI per davvero, credo sia una delle sensazioni a cui la maggior parte di noi aspiri. Una vita intera a lottare per essere visti da chi non ci vede e non ci sente.

Ecco io credo di aver buttato un sacco di anni a piangermi addosso chiamandomi l’INCOMPRESA. L’incomprensione è uno di quei sentimenti che spesso proviamo perché “non siamo capiti”, e quando non siamo capiti ci sentiamo anche non riconosciuti.

Parlo al passato perché, diciamolo piano, ho imparato da poco che in questi casi non è corretto dare la colpa agli altri che non ci vedono, o non ci comprendono, la colpa è nostra che continuiamo a sperare nel miracolo pensando che la prossima volta ci riusciremo.

Parliamo per esempi pratici che mi viene meglio, soprattutto perché l’esempio migliore in ogni argomentazione sono le mie esperienze che porto addosso.

Vi racconto questa mia storia avvenuta anni fa in un posto di lavoro che ora ho cambiato.

In questo lavoro ero sempre sotto pressione, cito testuali parole di un mio caro collega “la Fede sotto pressione va come un treno, in otto ore fa il lavoro di sedici”. Si è vero, non so perché ma facevo le mie otto ore con l’acqua alla gola correndo come una trottola, ogni volta che risolvevo qualche casino colossale mi sentivo estremamente realizzata. Il problema è che ogni volta mi aspettavo qualcosa in cambio, cosa? Eh, dura ammetterlo, mi aspettavo che il mio titolare facesse una rampa di scale e mi venisse solamente a dire: “brava Fede anche stavolta ce ne sei saltata fuori”, non mi aspettavo un aumento di stipendio o chissà quale altra ricompensa, quello è troppo per una come me che è nata sottovalutandosi, sarebbe bastata solamente una pacca sulle spalle. Ok, ma ha senso? no, non era lui quello sbagliato, ero io che mi aspettavo un applauso. Un sogno un pochino infantile per una donna adulta.

Quante volte è successo che lui facesse quelle scale? Mai. Quante volte ho aspetto che succedesse? sempre. Ho aspettato così tanto di essere notata che avevo perso di vista le mie esigenze, stavo deperendo, mi stavo logorando e mi stavo curando per una serie infinita di disturbi fisici che avevano una causa sola, il mio rapporto col lavoro.

Ad oggi, ringrazio quel collega che mi ha gentilmente “sostituito”, (lo virgoletto perché sarebbero altre le parole da dire, ma i tempo speso per lui è stato abbastanza) prendendo il mio ruolo anni fa, mi giunge voce che non abbia resistito molto, ma devo veramente ringraziarlo, se non fosse stato per lui non avrei mai cambiato aria e non avrei mai capito cosa significa QUALITA’ DI VITA.

Questa lezione mi è servita per capire che non sono gli altri ad essere sbagliati, infatti, come già scritto, quella sbagliata ero io, era nocivo il modo in cui avevo deciso di lavorare, il mio stacanovismo era scambiato per passionalità nel lavoro, la mia rabbia frenetica per attaccamento al lavoro.

Ho impiegato anni a realizzare che quel collega mi ha fatto uno dei regali più grandi, perché altrimenti oggi sarei ancora assorbita da quel lavoro senza lasciare spazio alla vita e alle mie passioni e a mia figlia.

Parlando con le mie amiche più care le lamentele che escono con il loro lavoro sono sempre le stesse, se non ci sentiamo riconosciuti dobbiamo cambiare aria, siamo nel posto sbagliato. Ha senso passare ore a rimuginare su quello che secondo noi ci meritavamo e non è stato visto? Ha senso essere rabbiosi verso quel collega che non sa la tabellina del due ma che viene sempre elogiato dai nostri superiori? No non ha senso, perché evidentemente non è la tabellina del due che serve in quel momento, quindi via, aria verso qualcuno che non sia così limitato.

Questo nel lavoro come nella vita in generale, anche in famiglia spesso ci si sente non capiti, ecco che la solitudine prende la gola e ci facciamo mille domande. Ci sono casi in cui vale la pena cercare di parlare la stessa lingua, arrivare a compromessi per il bene di un qualcosa che stiamo costruendo, altri casi dove oltre a non essere riconosciute veniamo anche annientate, di questo ne parleremo ancora.

Riassumendo, non è salutare stare seduti a contare tutte le ingiustizie che ci sentiamo di subire, non possiamo fare appello alla meritocrazia perché ahimè credo sia un valore che nel mondo del lavoro è stato ucciso, non possiamo stare fermi ad aspettare di essere visti. Chi non ci vede non ci vedrà mai.

Dedichiamo le nostre energie alle passioni che alimentano la nostra vita senza farci ammalare. Voi che mi leggete ogni giorno scrivendomi come vi sentite capiti nelle mie parole siete le persone che mi vedono bene anche senza occhiali da vista.

Il mio posto nel mondo e con voi, persone aperte dalle menti leggere.

Grazie di cuore davvero.

La favola delle pari opportunità

Questa è la storia di M. una cara amica che lavora in un’azienda del nostro territorio. Sabato sera, prima di dormire, ha voluto inviarmi una mail raccontandomi il suo lavoro e come si è ritrovata “spostata” da un ruolo all’altro. Ci siamo sentite e abbiamo scoperto che a lei sarebbe piaciuto molto che ci scrivessi un articolo, come forma di “riscatto” e io ho sperato me lo chiedesse. Quindi per tutte le M. li fuori, questo articolo è per voi, per far sentire la vostra voce che, per ovvi motivi, deve rimanere silenziosa.

Eravamo in sei nel ruolo di Project Manager in azienda, ognuno gestiva un’area geografica, la mia era quella asiatica (la più vasta), io ero l’unica ragazza.

Il mio titolare si lamentava spesso del fatto che fossimo poche, diceva che le donne in un’azienda erano necessarie soprattutto al centralino. Dovete sapere che la nostra azienda aveva la casa madre in Olanda e una delle innovazioni introdotte dalla nostra sede fu quella di togliere “la centralinista”, ruolo veramente avvilente affidato sempre e solo a donne, perchè si sa che la donna sorridente è sinonimo di dolce accoglienza. Il centralino era automatizzato al piano terra, ci si presentava e rispondevano dall’Olanda parlando in italiano, contattando poi l’ufficio compentente.

Questa novità non fu per niente gradita dal nostro titolare, sosteneva che l’arrivo di visitatori in azienda era un momento topico che andava impreziosito con l’accoglienza di un sorriso femminile che li avrebbe condotti nell’ufficio interessato, offerto un caffè, fatto una fotocopia, fornito biglietti da visita ecc. Quando sentivo queste parole mi immaginavo un ufficio del 1950 in bianco e nero con la segretaria d’azienda che faceva la stenografa.

Avevo legato molto con i miei colleghi d’ufficio, spesso uscivamo insieme per una pizza o per una birra, approfondendo l’amicizia ne risultò che ero l’unica laureata ma nonostante questo non ero ancora riuscita ad arrivare al loro stipendio, forse perchè ero stata assunta dopo pensai. Col tempo poi imparai che non era questione di “quando” ma di chi, la mia paga base era più bassa della loro e, trovandomi su questo blog, non ho bisogno di spiegarvi il perchè.

Nonostante il nostro lavoro fosse simile, mi trovavo spesso la sera ad uscire per ultima, oltre al mio ruolo di gestione progetti mi veniva chiesto di gestire anche le prenotazioni alberghi dei clienti, i taxi, i ristoranti, fare acquisti per le mogli ecc. Il mio capo diceva sempre: “dai M. ti ci vogliono 5 minuti per farlo, le donne sono multitasking”. In media arrivavano 2 gruppi di clienti a settimana e gestirli in tutti i movimenti era un lavoro a tempo pieno. Ho dimenticato di dire che il mio capo era molto conservatore, quindi dopo avermi fatto accompagnare i clienti in sala riunioni mi diceva: “M. senti se i signori gradiscono qualcosa”, ed ecco che con carta e penna prendendo le ordinazioni e scendevo alla macchina del caffè con il mio vassoietto. Si perchè in Olanda il ruolo di centralino era superato, ma per noi in Italia (lo dico al presente indicativo) è ancora un must have. (nda: Il problema non è il centralino, che ritengo essere una mansione di una certa importanza svolta indistinamente da maschi o femmine, ma tutte le mansioni di contorno che vengono attribuite solitamente a chi ne occupa la posizione).

Terminata tutta questa gestione clienti, riprendevo la mia scrivania dove le mail avevano superato il centinaio e spesso i clienti scocciati per la mia lentezza si lamentavano. Mi trovai spesso nell’ufficio del titolare per spiegare come fossi sott’acqua, il mio ruolo di Project Manager era veramente impegnativo e prenotare un aereo urgente mentre stavo facendo altro non era d’aiuto. La sua risposta era sempre la stessa: “è solo questione di organizzazione”, “non credo, i miei colleghi non devono chiamare l’albergo o portare il caffè, perchè io si?”, “vorresti dire che portare un caffè ogni tanto è un disonore? oppure che chiamare 5 minuti un albergo ti porta via tempo? dai per favore.” Cosa potevo rispondere di fronte a queste cose? Ricordo che avevo una sensazione di inadeguatezza, mi sentivo ingrata, come se il mio lavoro fosse un dono del cielo, dentro di me dicevo: “dai non lamentarti, hai un lavoro in ufficio, pensa a quante altre tue amiche sono ancora disoccupate”.

Questa situazione andò avanti per circa tre anni, lavorando circa 10 ore al giorno senza pausa pranzo, avevo perso 6 kg. Ero esausta. A fine anno il titolare mi convocò in ufficio dicendomi che in effetti aveva capito la situazione, avevo bisogno di aiuto. I clienti si lamentavano perchè spesso non rispondevo rapidamente, seguivo i progetti ma ero indaffarata anche con altro (nel mentre era arrivato un telefono fisso sulla mia scrivania con funzione di centralino e indovinate chi doveva rispondere?), a gennaio sarebbe arrivato un aiuto per me.

Al rientro dalle vacanze di Natale in effetti si arrivò un aiuto, la decisione presa fu quella di sollevarmi dall’incarico di Project Manager, lasciandomi il ruolo di “segretaria aziendale” con mansione di: centralino, organizzazione viaggi, gestione clienti, alberghi, aerei, taxi, back office e supporto ai colleghi e al titolare. La decisione fu una ferita aperta che in nessun modo riuscirò mai a far guarire, ricordo che quando chiesi spiegazioni mi fu risposto: “lo sai che quando chiamano i clienti per i progetti preferiscono sentire la voce di un tecnico, ci sono tanti ruoli più adatti per te qui in azienda, vedrai che così sarai più tranquilla e il lavoro ti piacerà, poi in tanti mi hanno riferito che spesso rispondi male, sei scorbutica, poco collaborativa, quindi ho pensato che allievarti da certi compiti fosse un modo per te per essere più sorridente”.

Si perchè essendo una donna multitasking i lavori sulla mia scrivania erano tantissimi, non riuscivo a fare tutto e spesso mi lamentavo, ero stanca, svogliata e avevo perso la grinta di sempre, diventando agli occhi degli altri “acida e silenziosa”, quindi sollevandomi dal ruolo per cui ero stata assunta, la ditta mi stava facendo un enorme favore, io ingrata non avevo detto neanche grazie.

M. lavora ancora in questa azienda, ecco perchè tutto quello che ho scritto è in forma vaga e anonima, il suo lavoro purtroppo non è cambiato negli anni, ora ha anche due figli e sappiamo bene come non ci sia mercato per noi mamme. Voglio scrivere un paio di righe facendo un copia incolla direttamente dalla sua mail:

“Piango quando penso a quanto hanno speso i miei genitori per farmi studiare, ricordo l’entusiamo della mia laurea e le speranze di una giovane ragazza realizzata. Odio svegliarmi al mattino per andare al lavoro, odio il mondo del lavoro in Italia per come mi ha messo in un angolo da subito. Non voglio prediche o consigli su quello che avrei potuto fare. Voglio solo gridare quanto mi sento fallita. Troppe volte mi sono trovata a piangere come una bambina emotiva nonostante i miei 38, e troppe volte ancora mi sento svalutata di chi lavora con me”.

La posizione della donna nel mondo del lavoro italiano è da “terzo mondo”, la colpa principale non deve essere data alle singole aziende, piuttosto allo stato che non sta in alcun modo incentivando e aiutando le donne e le aziende. Credo anche che le donne siano da tutelare nel mondo del lavoro con normative dedicate perchè attualmente la storia delle pari opportunità resta solo una bella favola. Il nostro ruolo è sempre stato di contorno, la maggior parte dei manager sono uomini, i politici sono quasi tutti uomini, le stesse task force nominate da Conte in questo momento pandemico sono tutte composte da uomini, sapete perchè? Perchè le donne sono nelle retrovie a lavorare, A FARE, sempre in passo indietro, in silenzio, la posizione che da sempre ci hanno riservato.

Io ringrazio M. per l’occasione che mi ha dato, avrei voluto scrivere tante cose in merito a questo tema, ma utilizzare una storia vera è stato il modo migliore, così da riflettere senza utilizzare opinioni o parole scomode che allo stato italiano danno solo motivi in più per metterci in un angolo. Vorrei aggiungere che fortunatamente questa è la singola situazione specifica della mia amica, sono certa che la maggior parte dei posti di lavoro ha superato queste dinamiche bersaglianti i ruoli femminili.

Non è un gran riscatto, ma spero che per una volta tu possa sentire l’importanza che meriti.

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