L’arte del sentirsi incompresi.

Essere riconosciuti, esseri VISTI per davvero, credo sia una delle sensazioni a cui la maggior parte di noi aspiri. Una vita intera a lottare per essere visti da chi non ci vede e non ci sente.

Ecco io credo di aver buttato un sacco di anni a piangermi addosso chiamandomi l’INCOMPRESA. L’incomprensione è uno di quei sentimenti che spesso proviamo perché “non siamo capiti”, e quando non siamo capiti ci sentiamo anche non riconosciuti.

Parlo al passato perché, diciamolo piano, ho imparato da poco che in questi casi non è corretto dare la colpa agli altri che non ci vedono, o non ci comprendono, la colpa è nostra che continuiamo a sperare nel miracolo pensando che la prossima volta ci riusciremo.

Parliamo per esempi pratici che mi viene meglio, soprattutto perché l’esempio migliore in ogni argomentazione sono le mie esperienze che porto addosso.

Vi racconto questa mia storia avvenuta anni fa in un posto di lavoro che ora ho cambiato.

In questo lavoro ero sempre sotto pressione, cito testuali parole di un mio caro collega “la Fede sotto pressione va come un treno, in otto ore fa il lavoro di sedici”. Si è vero, non so perché ma facevo le mie otto ore con l’acqua alla gola correndo come una trottola, ogni volta che risolvevo qualche casino colossale mi sentivo estremamente realizzata. Il problema è che ogni volta mi aspettavo qualcosa in cambio, cosa? Eh, dura ammetterlo, mi aspettavo che il mio titolare facesse una rampa di scale e mi venisse solamente a dire: “brava Fede anche stavolta ce ne sei saltata fuori”, non mi aspettavo un aumento di stipendio o chissà quale altra ricompensa, quello è troppo per una come me che è nata sottovalutandosi, sarebbe bastata solamente una pacca sulle spalle. Ok, ma ha senso? no, non era lui quello sbagliato, ero io che mi aspettavo un applauso. Un sogno un pochino infantile per una donna adulta.

Quante volte è successo che lui facesse quelle scale? Mai. Quante volte ho aspetto che succedesse? sempre. Ho aspettato così tanto di essere notata che avevo perso di vista le mie esigenze, stavo deperendo, mi stavo logorando e mi stavo curando per una serie infinita di disturbi fisici che avevano una causa sola, il mio rapporto col lavoro.

Ad oggi, ringrazio quel collega che mi ha gentilmente “sostituito”, (lo virgoletto perché sarebbero altre le parole da dire, ma i tempo speso per lui è stato abbastanza) prendendo il mio ruolo anni fa, mi giunge voce che non abbia resistito molto, ma devo veramente ringraziarlo, se non fosse stato per lui non avrei mai cambiato aria e non avrei mai capito cosa significa QUALITA’ DI VITA.

Questa lezione mi è servita per capire che non sono gli altri ad essere sbagliati, infatti, come già scritto, quella sbagliata ero io, era nocivo il modo in cui avevo deciso di lavorare, il mio stacanovismo era scambiato per passionalità nel lavoro, la mia rabbia frenetica per attaccamento al lavoro.

Ho impiegato anni a realizzare che quel collega mi ha fatto uno dei regali più grandi, perché altrimenti oggi sarei ancora assorbita da quel lavoro senza lasciare spazio alla vita e alle mie passioni e a mia figlia.

Parlando con le mie amiche più care le lamentele che escono con il loro lavoro sono sempre le stesse, se non ci sentiamo riconosciuti dobbiamo cambiare aria, siamo nel posto sbagliato. Ha senso passare ore a rimuginare su quello che secondo noi ci meritavamo e non è stato visto? Ha senso essere rabbiosi verso quel collega che non sa la tabellina del due ma che viene sempre elogiato dai nostri superiori? No non ha senso, perché evidentemente non è la tabellina del due che serve in quel momento, quindi via, aria verso qualcuno che non sia così limitato.

Questo nel lavoro come nella vita in generale, anche in famiglia spesso ci si sente non capiti, ecco che la solitudine prende la gola e ci facciamo mille domande. Ci sono casi in cui vale la pena cercare di parlare la stessa lingua, arrivare a compromessi per il bene di un qualcosa che stiamo costruendo, altri casi dove oltre a non essere riconosciute veniamo anche annientate, di questo ne parleremo ancora.

Riassumendo, non è salutare stare seduti a contare tutte le ingiustizie che ci sentiamo di subire, non possiamo fare appello alla meritocrazia perché ahimè credo sia un valore che nel mondo del lavoro è stato ucciso, non possiamo stare fermi ad aspettare di essere visti. Chi non ci vede non ci vedrà mai.

Dedichiamo le nostre energie alle passioni che alimentano la nostra vita senza farci ammalare. Voi che mi leggete ogni giorno scrivendomi come vi sentite capiti nelle mie parole siete le persone che mi vedono bene anche senza occhiali da vista.

Il mio posto nel mondo e con voi, persone aperte dalle menti leggere.

Grazie di cuore davvero.