Musica sessista, fermiamo la violenza.

Ogni mio articolo è scatenato da una goccia che fa traboccare il mio vaso, che onestamente, credo essere diventato un bicchiere da shortino più che un vaso, questo perché la tolleranza verso certi comportamenti è sempre meno così come lo spazio che riesco a dedicargli nel mio contenitore. Oggi parleremo di musica, nello specifico di un genere musicale e alcuni “artisti” italiani che ne fanno un uso improprio.

Il mio panorama musicale è estremamente vasto, da Bruce Springsteen a Adriano Celentano, gli Articolo 31, il genere indie, il pop, reggeaton, rap, mi piace praticamente tutto, da ascoltare in funzione di come mi sento in un dato momento, ad esempio oggi, per scrivere, ho scelto il blues del delta di Chicago.

Gli “artisti” che sto mettendo sotto esame sono esplosi negli ultimi anni in Italia tra i ragazzi giovanissimi, fanno parte della scena rap, hip hop e trap, genere musicale a me molto caro specialmente quando sto correndo in ciclabile e ho bisogno di qualcosa che carichi.

Facciamo un breve tuffo nel passato, quando ho iniziato a sentire i primi ritmi rap provenienti da oltre oceano, negli Stati Uniti ero una giovane ragazza di 13 anni. Uno degli esponenti più importanti della musica rap americana è stato Tupac (parlo di lui perché il mio preferito, difficile poterlo imitare).https://it.wikipedia.org/wiki/Tupac_Shakur.

La sua musica “parlata” era usata come denuncia della vita che lui e i suoi “fratelli” afroamericani vivevano. Era principalmente “musica nera”, cantata dalla loro minoranza che parlava di razzismo, povertà, guerra tra gang, sparatorie, criminalità, prostitute, ragazzi giovanissimi che per guadagnare qualche soldo si buttavano nella malavita e nel commercio della droga, insomma la realtà dei primi anni novanta per la “sua gente”. La musica poi lo ha arricchito e reso famoso ma la rivalità tra gang ha avuto la meglio, infatti alla giovane età di 25 anni è stato ucciso. Artisti come lui hanno influenzato molto il resto del mondo e anche nella nostra piccola realtà ecco emergere le canzoni parlate di Jovanotti e gli Articolo 31, ovviamente con un altro spirito, tematiche diverse e ricche di contenuti.

Questa intro ci aiuta a capire le origini di questo genere musicale e, come sia stato poi trasformato oggi nel nostro paese. In Italia infatti il numero di artisti che si destreggia tra questi generi musicali è sempre maggiore, con testi arrabbiati, che anziché mettere in musica serenate rap (perchè di quella ce n’è una sola), scrivono di cattiverie subite, emarginazione, sogni non realizzati. Non tutti però hanno temi impegnati purtroppo, anzi.

Alcuni di questi infatti, mettendosi sulla falsa riga di artisti importanti che hanno risollevato la loro vita con la musica, si sentono autorizzati a scrivere testi carichi d’odio nei confronti delle donne. Questo genere musicale è stato una rivoluzione per far sentire la voce di chi per troppo tempo è stato messo a tacere in quanto “minoranza”, mentre alcuni dei nostri rapper italiani sostengono che cantare con il linguaggio di strada sia la chiave del successo. In questo linguaggio sono inclusi termini come “troia”, “puttanta” ecc, insulti sessisti che sappiamo bene esistere in versione femminile soltanto.

Non è mia intenzione scrivere o citare alcuno dei loro testi, credo siano già abbastanza pubblicizzati. Siamo nel 2020, il numero dei femminicidi in Italia è altissimo, combattiamo il patriarcato e il maschilismo e mentre sono ferma al semaforo sento passare per radio una “canzone” di questo genere?

E’ davvero questo il messaggio che si vuole passare alle generazioni che stanno ascoltando la canzone? Non ci sono altri argomenti a disposizione per questi “artisti”? Oppure la scelta di utilizzare tutto questo sessismo è in nome del successo? Per vendere di più? Beh, se questa fosse la ragione, lasciatemi dire che ci troviamo di fronte ad una pochezza inaudita.

Parte di questo articolo verrà utilizzato da un centro antiviolenza nel veronese, pertanto mi sono documentata a dovere prima di scrivere, scoprendo anche che ci sono artisti come Ghali (Good Times, canzone super trasmessa quest’estate) che si sono fatti portavoce di una campagna contro l’uso smodato di parole violente verso le donne. Ghali è un rapper italiano ma di origine tunisina, un caso? Non direi, in diverse sue interviste parla di come sia stato discriminato ed emarginato, sentendosi “diverso” o parte di una minoranza. Ecco che esperienze come queste ti cambiano, ti rendono migliore, insegnandoti ad essere più rispettoso verso l’altro.

Mi verrebbe molto facile etichettare questi artisti dai poveri contenuti, nello stesso modo in cui loro ci hanno etichettato, ma non è combattendoli personalmente che risolverò il problema della violenza contro le donne purtroppo. Vorrei piuttosto farli ragionare sull’importanza dei messaggi che lanciano ai più giovani che amano ascoltarli, quanto pesano le parole che utilizzano e come possono essere percepiti da chi non è pronto. Vorrei portarli con me in un centro anti violenza per un giorno, dar loro modo di incontrare donne che vivono nell’ombra per non essere trovate dall’ex marito, altre che sono vive per miracolo, e altre ancora che, per paura di perdere i figli, restano nella casa con il loro carnefice, con botte e violenza continua.

“E’ solo una canzone, sai quante parolacce sentono in casa questi ragazzi?”, certo che lo so, per tante famiglie vivere in mezzo alla violenza è una normalità, sentirla però passare anche nelle canzoni è come renderla lecita e accettata, come autorizzarne l’esistenza e la convivenza. La prossima vittima potrebbe essere vostra figlia, mamma, sorella, una donna importante della vostra vita, riflettete sul male che trasmettete nelle vostre parole. La vostra influenza mediatica sui più giovani potrebbe essere usata proprio per lanciare messaggi contro la discriminazione e la violenza, fatevi portavoce del cambiamento per un futuro migliore.

Fermiamo la violenza anche con la musica.