“Dalla parte della bambine” – manca ancora molto alla parità di genere?

Anche quest’anno mi sono trovata di fronte alla necessità di comporre un testo sulla parità di genere in Italia, focalizzandomi sul: “Quanto manca ancora alle donne per”; ho fatto veramente fatica, per la prima volta.

Fatica dovuta a cosa di preciso? Ci ho pensato molto, mi chiedevo: perché non riesco? Questa è la mia tematica, il mio pezzo forte, basta andare a rileggere tutti quelli fatti in precedenza no?

Poi ho capito: rileggere quelli fatti in precedenza si, perché di tutto quello che scritto e discusso negli anni, non è cambiato nulla, tutto è ancora esattamente uguale.

Ecco il motivo della fatica, svenarsi ogni volta per elencare quello che ancora manca, quello che ancora non va, rendendomi conto che dico e scrivo sempre le stesse cose, non perché io sia monotematica, perché ancora nulla si è mosso.

Allora mi sono chiesta: nonostante negli ultimi decenni il femminismo sia così inserito all’interno di diverse forme mediatiche, social, movimenti trasmessi in ogni angolo della terra, perché ancora non si sono fatti molti passi avanti? Quali sono gli ostacoli, dove risiedono queste abitudini che ancora vedono le donne come esseri docili, mansueti, addomesticati, che dovrebbero con grazia e femminilità adempiere alla vita a cui ognuna è solitamente destinata? Rispecchiando retaggi culturali e sociali di cui siamo schiavi.

Parto specificando che la quarta ondata femminista, vale a dire quella a cui stiamo assistendo ai giorni nostri, quella a cui mi sento di appartenere e quella a cui tutti dovremmo prestare attenzione veramente, proclama e richiede parità di genere. Erroneamente a quello che siamo portati solitamente a pensare, luogo comune stereotipato da secoli e secoli di patriarcato, il femminismo attuale non vuole la supremazia delle donne sugli altri, vuole la parità tra generi, a livello sociale, economico e politico.

Ecco perché oggi è impossibile parlare di parità di genere senza chiamare in causa il femminismo.

Per darmi una motivazione valida su ciò che ancora boicotta questa parità tra generi, sono andata a leggere diversi saggi di specialiste, cercando risposte alle mie domande, un libro in particolare mi ha letteralmente colpito dandomi la spiegazione più naturale e ovvia.

L’autrice, Elena Gianini Belotti, è stata una pedagogista, insegnante e scrittrice, tra i tanti libri scritti, dedicati alla tematica delle donne e dell’infanzia, uno è stato illuminante, il titolo è Dalla parte delle bambine.

Quest’opera è datata 1973, quindi piuttosto antica, passatemi il termine, rispetto al nostro 2023, ma spaventosamente attuale, ecco perché voglio segnalarla.

E’ una mera indagine scientifica, condotta tra reparti di ostetricia e scuole dell’infanzia, che analizza la differenza di carattere tra maschi e femminine come frutto di una differenziazione dei sessi operata fin dalla prima infanzia, quasi prima della stessa nascita, strumentalizzando il concetto di femminilità e mascolinità sotto ogni suo stereotipo peggiore per fabbricare la tipologia standard di donna e uomo ben inserita nella nostra società.

Vorrei ricordare come fino a poco tempo fa, in alcuni piccoli paesi fuori provincia tutt’ora, si sentisse la frase: “Auguri e figli maschi”, sarà un caso?

Assolutamente no, Gianini Belotti infatti spiega come fin dal concepimento si sperasse in un maschio, per portare avanti il cognome, per fare grandi cose, per essere genitori orgogliosi, perché i bambini si sa, saranno gli uomini di domani, e agli uomini è riservato il potere.

Nulla a che vedere con le bambine, dalle quali, già appena nate ci si aspetta molto. Riassumendo in breve, per quel che posso, Gianini Belotti documenta, come le bambine vengano abituate da subito al sacrificio, vengano domate ed educate in modo repressivo dai genitori, soprattutto se presentano caratteristiche animate, nervose, rumorose, troppo giocose, tutte qualità invece, riconosciute e fomentate sui bambini. Le bimbe devono essere instradate verso la docilità, la grazia, l’accettazione di una posizione marginale, la dedizione alla famiglia, il silenzio, insomma: addomesticate.

Nell’ambiente domestico, vengono interrotte nei loro giochi o nelle loro attività, per aiutare la mamma nelle faccende di casa, mentre i maschietti no, vengono lasciati liberi di giocare, od oziare sul divano quando saranno adulti, dopo una giornata di lavoro ad esempio.

Le bambine imparano presto che per soddisfare le aspettative riversate su di loro, devono eseguire gli ordini, specialmente all’interno del focolare domestico, senza ribellarsi, senza urlare o rifiutarsi, perché non è ammessa l’insubordinazione. Fin da subito capiscono così la distinzione dei ruoli, che entra dentro, nel profondo, mettendo le basi per schemi fissi messi in pratica nel futuro, specialmente quando quelle bambine diventeranno donne adulte, destinandole ad una mancanza perenne di autostima, cosa che nei maschi, uomini adulti del futuro normalmente non succede.

Già queste righe credo possano bastare per darci una chiave di lettura consona, mostrandoci come mai manchi ancora molto al raggiungimento di parità tra generi.

Vorrei però fare una mia riflessione mettendo nero su bianco le conseguenze di questa educazione che ci portiamo dietro da millenni.

Sulle femmine si tende a reprimere ogni forma di espressione di rabbia, di potere, bisogno di affermazione ecc. Dall’altro lato, ai maschietti, viene concesso, perché tutto ciò che è legato all’istinto, alla fisicità, la necessità di vincere, di elevarsi è lecito.

Non è forse anche questo, o soprattutto questo, il motivo per cui, nonostante sul pianeta terra le donne siano in maggioranza, sono gli uomini a governare? Sono gli uomini a detenere il potere, ad avere ruoli importanti e in percentuale a lavorare di più.

Dunque, al tavolo dei potenti noi non ci siamo, o se ci siamo, è in minoranza.

Viviamo ancora in mondo in cui potere e soldi sono simbolo di virilità, dove rabbia, lotta, e ribellione sono caratteristiche che sulle donne non vengono accettate.

Un esempio banale è il famoso gender pay gap, ovvero la differenza salariale tra i sessi.

Quante di noi si sono mai permesse di mettere in discussione lo stipendio offerto durante un colloquio di lavoro? O anche solo permesse di chiedere la paga?

“Non sta bene sentire le donne parlare di soldi” diceva sempre mio nonno, e inoltre a seguito dell’educazione ricevuta, non ci sentiamo nemmeno meritevoli di chiedere di più.

“Non sono abbastanza” questo abbiamo imparato fin da piccole. Pensiamo a cosa può assimilare una bambina che cresce insieme ad un fratello maschio, come vive le differenze educative, sentendosi diversa, discriminata talvolta, inferiore, ricordo infatti, come precisa Gianini Belotti nel suo libro, che sono le bambine a venire continuamente interrotte per aiutare la mamma, cosa che non accade coi fratelli. Questo atteggiamento protratto nel tempo innescherà nel carattere femminile il nulla osta a mettersi in secondo piano per gli altri, a sacrificare la felicità per il dovere.

Nell’ambiente lavorativo quindi, sulle basi fondate da famiglia e scuola, le donne raramente lottano per il proprio riconoscimento anzi, accetteranno quello offerto, non riconoscendosi valide quanto un uomo, quanto un bambino maschio.

Come si può contrattare una paga salariale se nella nostra mente, una voce subdola ci dice: “Certamente ci sono persone più brave di te, accetta quanto ti viene offerto, sii buona e stai al tuo posto”.

Ecco spiegato, in buona parte, perché ancora non siamo arrivate dove vorremmo, ancora combattute tra lavoro e famiglia, facendoci carico di tutti i pesi familiari, lavorando il doppio degli uomini per sentirci a posto con la nostra coscienza, sapendo che a parità di titoli di studio, il nostro stipendio e la nostra valutazione sarà sempre inferiore, perché si sa, le bambine devono avere grazia, pazienza ed eleganza, portare un tocco femminile nel mondo, non di certo qualifiche o capacità particolari.

La società, ma anche la mentalità di ogni suo singolo componente, fa ancora fatica a bloccare questi retaggi insiti dentro di noi, viene difficile quindi cambiare usanze e metodi così radicati da non renderci nemmeno conto di cosa facciamo e di come etichettiamo e istruiamo bambine e bambini.

Mi metto in discussione anche io, senza recriminare nulla alla mia famiglia o alle mie maestre di quando ero bambina, sono stata cresciuta così. Sto facendo un grande sforzo per esaminare i miei atteggiamenti e le mie aspettative verso mia figlia, lasciandola libera come essere umano. Infatti all’età di tre anni, i bimbi iniziano a notare alcune differenze fisiche tra maschi e femmine e piano piano cresceranno riconoscendo tutte le diversità che noi adulti, prendendoci come modello, tendiamo ad evidenziare.

Adesso è il nostro turno, è il nostro momento, per cambiare, per tagliare queste radici patriarcali, evitando di domare, addomesticare le nostre bambine, insegnando ai nostri figli maschi che piangere è normale, la fragilità è normale.

Ecco cosa serve, a mia modesta opinione, per mettere le basi, solide fondamenta verso la parità di genere, una rivoluzione societaria e familiare, che limiti l’applicazione di stereotipi sui nostri piccoli adulti di domani.

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Lo spazio che meritiamo.

Iniziamo con un luogo comune, dirlo, ripeterlo, potrebbe solo aiutarci ad assimilare il concetto: le donne ai vertici, di qualsiasi attività, sono sempre molto poche rispetto agli uomini.

Chi di loro riesce ad arrivare ai vertici deve rispettare standard molto elevati: essere impeccabile, eccellente, perfetta nel ruolo affidato e il più delle volte dormire a fatica per la responsabilità che si sente addosso, per il pensiero di mantenersi tale. Ci avete badato invece a come sono gli uomini agli stessi irraggiungibili (per noi) vertici? Sono NORMALI, sono esseri umani a cui è anche concesso un errore ogni tanto, pochi sono gli impeccabili ed eccellenti, sono persone qualsiasi, alle volte con una lunga lista di difetti, a cui non viene richiesto “di essere qualcosa” in più rispetto al loro limite.

Aggiungiamo anche che spesso, questi uomini, sono arroganti, sicuri di se, certi di meritare a pieno quel ruolo. Capaci di guardare tutti dall’alto verso il basso, non sanno cosa sia l’umiltà, non conoscono la fatica di affermarsi e di raggiungere obiettivi con i bastoni tra le ruote, non sanno cosa vuol dire fare di più del dovuto per essere riconosciuti, perché in quanto uomini non hanno nulla in più da dover dimostrare, a differenza nostra.

Ci pensate ad una donna in una posizione importante nelle sue vesti “normali”? Ecco, il fatto è proprio questo, e per spiegarlo mi riallaccio alle famose pari opportunità che ancora suonano come barzelletta alle mie orecchie. Per quale motivo a me viene richiesto il doppio lavoro, il doppio della fatica, sacrifici familiari ecc.. per poter raggiungere un ruolo importante?

E’ possibile avere le stesse opportunità date agli altri? Possibilità di essere ai vertici in modo normale? Senza dover sputare sangue ad esempio? Le donne che sono arrivate in alto hanno dovuto mettere da parte davvero tanto, fare scelte dolorose per dimostrarsi “degne”, sacrifici così grandi da far piangere nella solitudine della sera. La donna che arriva in alto deve essere la migliore, solo eccellendo può ambire a un ruolo “maschile”, perché si un qualsiasi ruolo di dirigenza è ancora considerato da uomo.

L’Italia è invasa da uomini che occupano posizioni di potere, di privilegio, basti pensare al nostro parlamento, il presidente del consiglio, il presidente della repubblica; oppure possiamo guardare anche alle più piccole realtà, le aziende dove lavoriamo, il nostro comune, la nostra provincia, quante donne vedete ricoprire ruoli di potere? Diciamo poche o quasi nessuna? Direi di si. L’Italia, per i suoi pregressi storici, è uno dei paesi più retrogradi relativamente al ruolo della donna nella società, siamo ancora una minoranza in termini di istruzione e lavoro, è ancora normale che una donna, dopo essere diventata mamma, lasci il lavoro perché incompatibile con l’esigenze dei bimbi. L’Italia è ancora un paese che non tutela la figura della donna o della mamma, perché nelle posizioni di potere ci sono quasi sempre solo uomini, che non conoscono queste fragilità e neanche si prestano a capirle.

Non c’è vittimismo in questo discorso, solamente realismo di fronte alle diverse opportunità che ci vengono date, noi abbiamo bisogno di spazio in questa società, la nostra lungimiranza, la nostra intelligenza mixata con la sensibilità che tanto ci viene criticata, sono doti molti utili e preziose nel mondo in cui stiamo vivendo, pieno di diversità e fragilità che, un uomo, non essendo mai stato fragile o in minoranza, non potrebbe mai vedere.

Smettetela di chiederci di essere eccellenti nel ruolo che ricopriamo, quando intorno a noi ci sono solo uomini che svolgono le loro mansioni in modo normale, lasciateci essere come siamo, senza pretese extra solo perché siamo donne e siamo arrivate in un posto che “solitamente” è impegnato da una desinenza maschile.

Siamo un bene prezioso, lasciateci essere parte attiva in questa società, vogliamo l’opportunità di essere normali anche noi.

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Bentornata al lavoro Mamma!

“Ok essere resilienti, ok uscire dalla zona comfort, ma mi aspettavo qualcosa di più soft. Mi sono impegnata a trasmettere serenità, nonostante tutto. Ho dovuto giustificarmi come se fermarsi per la maternità fosse sinonimo di vacanza, come se in pochi mesi distanti dal lavoro, le donne perdessero le competenze acquisite in anni di lavoro. Eppure..”

Questo è solo un estratto di un post di inizio anno di una mia cara amica diventata mamma da poco, quello che voglio fare oggi è leggere fra queste poche righe, raccontando quello che non è normale sia normale relativamente al rientro al lavoro delle donne dopo la gravidanza.

Francesca come tante altre mamme ha condiviso con me il suo rientro al lavoro, siamo amiche e come tali ci si racconta. La sua storia è uguale a quella di tante altre ragazze che ho conosciuto nell’ultimo anno, con due punti in comune fondamentali: aver fatto un figlio, dover rientrare al lavoro e sentirsi in colpa.

Lo scopo principale di questo articolo non è accusatorio verso un qualcuno in particolare, è un modo per raccontare come donne in settori diversi (commercio, industria, artigianato ecc) si siano trovate tutte nella stessa situazione, non voglio fare il processo alle intenzioni, quanto invece parlare del sentire di queste donne, come hanno vissuto il rientro, come lo vivranno, come sono state accolte, che sensazioni hanno percepito. Questo ci aiuterà a prendere coscienza insieme su cosa significhi tornare al lavoro nel 2020 in Italia dopo aver avuto figli.

In questo caso non ci sarà la mia solita componente autobiografica, perché per me il rientro al lavoro è stato ottimo, con datori di lavoro che mi hanno aperto le braccia, sostenuto e ascoltato le mie necessità di mamma e di donna. Realtà come la mia sono mosche bianche, il fatto che io “sia stata fortunata” ci fa capire come sia lontano il nostro obiettivo. Situazioni così andrebbero vissute come normali anziché come fortunate, la nostra società e il nostro governo dovrebbero lavorare affinché il benessere della mamma sia tutelato e d’obbligo, mentre invece la verità è quella che vi andrò a raccontare.

Non importa che tu abbia fatto solo i tre mesi di maternità obbligatoria, oppure anche la facoltativa, quando dovrai rientrare al lavoro farai un bel respiro perché nella tua testa aleggia quel senso di colpa “ti sei assentata dal lavoro per molto tempo”, si esatto come se avessi fatto una bella vacanza, poco importa se nel mezzo hai preso 10 o 15 punti per una lacerazione o se non hai ancora ripreso a dormire come dovresti. Per la maggior parte dei datori di lavoro (uomini o donne che siano) sei comunque un dipendente con un deficit, come se avessi un handicap, hai un figlio e questo per loro significa che il primo posto nella tua vita sarà impegnato da questo esserino e chiaramente non sarai più disponibile come prima.

“Ho mandato una mail per chiedere appuntamento al mio capo, volevo parlargli, prima del mio rientro ufficiale. L’idea era quella di spiegare la mia impossibilità al nido soprattutto ora con il covid (sarebbe più a casa che a scuola), il fatto che non ho nonni a disposizione e quindi l’esigenza di un part time. Il giorno del colloquio mi sono presentata in ufficio con il cuore in gola, se il mio capo non avesse capito le mie esigenze avrei dovuto prendere qualche decisione drastica”. Inizia così la storia di tutte, la mamma è ad un bivio: sceglierà di rientrare al lavoro come nulla fosse? Con le solite 8 o 9 ore al giorno, sempre super operativa, scegliendo di “trascurare” un po’ il figlio? Sarebbe per una buona causa, per dare un’ottima impressione ai titolari, mostrando quando tenga alla sua posizione e al suo lavoro. Oppure, sceglierà la famiglia, chiedendo una riduzione d’orario? Nel caso in cui venga negata che si fa? Potrebbe licenziarsi e accudire i figli, perdendo ogni possibilità di crescita lavorativa, ma potrebbe fare la mamma a tempo pieno.

La mamma deve scegliere, o la famiglia o il lavoro, questo appunto perché la maggior parte delle realtà non ha un lieto fine come la mia, purtroppo la società in cui viviamo non ha un minimo di sensibilità verso le neo mamme, non ha rispetto del rapporto mamma e figlio, del rientro al lavoro o del fatto che non è corretto separare i due per otto o nove ore al giorno. Di norma il proprietario dell’azienda (basandosi su quanto la legge italiana fa o ha fatto in questo ambito) semplicemente si limita a pensare alle sue esigenze produttive e ai costi, se la mamma ha qualche problema o solleva difficoltà nella sua gestione familiare, non sarà di certo lui a farsene carico.

Il comun denominatore di queste storie è uno: il rientro al lavoro per la mamma viene vissuto come un colpevole che si presenta al banco degli imputati sotto processo, una giuria pronta a processarlo con un capo d’accusa ben radicato nelle menti soggiogate dalla società: hai scelto di diventare mamma, mettendo in secondo piano il tuo lavoro.

In realtà i comun denominatori sono due, perché le mamme di cui parlo, sono rientrate tutte chiedendo riduzioni di orario, orari continuati, cambio di mansioni, richieste con uno scopo solo: ritagliarsi un po’ di ore, di energie per poter stare con il proprio bambino, a chi piacerebbe fare un figlio e lasciarlo al nido o dai nonni per dieci ore al giorno? La risposta è stata quasi per tutte la stessa:

  • riduzione d’orario per qualche mese, tempo che il bambino si abitui a “vederti meno” poi però torni a tempo pieno,
  • non possiamo farlo per te, poi se no dovremmo farlo per tutte le altre che ce lo chiedono,
  • non sei la prima a far figli, sono riuscite loro ad organizzarsi, puoi farcela anche tu,
  • lo so ti capisco, infatti mia moglie ha scelto di licenziarsi e restare a casa coi figli, il part time è un costo elevato per noi, non possiamo accettarlo mi dispiace.

L’Italia è uno dei paesi sviluppati con il numero più elevato di mamme disoccupate, credo non ci sia bisogno di ulteriori chiarimenti sul tema.

I part time sono in effetti molto più costosi per le aziende rispetto ai tempi pieni; caro governo, non sarebbe il momento di aggiornarsi e mettersi al pari degli altri stati europei? Agevolando i lavori flessibili per aiutare le mamme evitando che si sacrifichino sempre loro per il bene familiare? Cerchiamo di favorire l’apertura di asili nido all’interno delle grandi aziende, aiutiamo quelli già esistenti, così da poter abbassare le rette? E soprattutto miglioriamo le riforme legate alla maternità? Ci sono aspetti ancora così retrogradi che sembra di vivere nell’Italia fascista del 1920.

Queste mamme, come tantissime altre, si sono sentite sbagliate, in colpa per aver fatto un figlio, dipendenti noiose che danno fastidio. Alcune rientreranno al lavoro tristi e in pensiero per un bambino che dall’oggi al domani si troverà a passare intere giornate senza la sua mamma, altre invece non rientreranno proprio, costrette al licenziamento, è giusto tutto questo? E’ così che garantiamo il benessere delle famiglie? In che paese precario stiamo vivendo?

Ultima nota dolente che va detta è legata alle colleghe, sono femminista certo, ma ho prima di tutto un’etica e devo ammettere quando sono le donne le prime a sbagliare. In ogni racconto ho sentito proprio questo particolare, come le colleghe siano state perfide, violente verbalmente, come si siano scagliate contro le richieste di queste mamme, fa male sentirlo, cos’è che ci fa scattare questo meccanismo tale per cui, anziché condividere e sostenere, isoliamo ed emarginiamo la nostra collega neo mamma come se si fosse presa la famosa vacanza? Argomento ostico e appuntito direi questo, che tratterò in un altro momento, ma volevo scriverlo perché è uno degli aspetti più dolorosi della vicenda. Quanta solidarietà tra donne ci manca ancora, certi passi possiamo compierli solo insieme, smettiamo di sabotarci.

Sono veramente grata ai miei titolari e alle loro “menti aperte” per avermi dato la possibilità di gestire il lavoro in base alle mie esigenze e quelle di mia figlia, permettendomi quindi di essere e fare la mamma in serenità godendoci il nostro tempo. Tutto questo è ancora una rarità, voglio essere fiduciosa e pensare che aziende come quella in cui lavoro io siano d’esempio, so per certo che su questa scia tante altre stanno operando allo stesso modo.

Alle mamme che hanno dovuto scegliere voglio dire di raccontarlo, di parlarne, perché NON E’ NORMALE CHE SIA NORMALE, sradichiamo dalle nostre teste abitudini di una società vecchia, bigotta, preistorica, superata e VERGOGNOSA.

Questa sono io, che ci spera sempre, con la testa lassù, tra le nuvole.

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