Li conoscete i perturbarti?

Il mio libro è alle porte, giugno è vicino, e sono estremamente felice di essere arrivata a questo traguardo.

Come ogni scrittore ho sottoposto il manoscritto a persone a me vicine, di spicco totalmente diverso l’una dall’altra, lo scopo era quello di giungere a valutazioni dalle varie sfaccettature, che nemmeno io avrei potuto notare.

E’ così che uno dei miei primi lettori mi dice: “Hai scelto una protagonista estremamente perturbante”.

Resto in silenzio subito, perché dentro di me ho avuto un attimo di smarrimento. Perturbante? Veramente?

Poi mi sono andata a leggere il vero significato di questa parola, perché evidentemente le avevo attribuito il tono sbagliato. Dalla Treccani: tutto ciò che si presenta come estraneo e non familiare al soggetto, generando in lui angoscia e terrore, e la cui origine si connette, contraddittoriamente, a ciò che gli era già noto da lungo tempo, ma che era diventato oggetto di una rimozione.

Si, lo è, eccome, ecco la sfaccettatura che mi mancava.

Di perturbanti ne ho conosciuti, per fortuna pochi, perché sono i peggiori. Sono quelli che, come dice la Treccani provocano un senso di estraneità, ma legato anche a qualcosa di familiare, generando una forte attrazione mista a repulsione. Nulla di rassicurante o prevedibile insomma, anzi. La lotta interiore che ci consuma ci obbliga all’autenticità, facendo cadere tutte le nostre maschere. Chi ha questa capacità può mandare all’aria tutto ciò che ci siamo gelosamente costruiti, esattamente come lei, la mia protagonista.

Non a caso, tendenzialmente allontaniamo queste persone, spaventati da quello che abbiamo provato non appena le abbiamo avvicinate. L’affanno dettato dalla loro presenza ci obbliga a conoscere noi stessi, guardarci dentro per davvero, lasciando spazio a paure irrazionali scongiurate e nascoste sul fondale.

L’amico lettore ha poi aggiunto: “Ciò che rende speciale i perturbarti è che sembrano sempre entrare in contatto con i loro nemici giurati: gli imperturbabili, gli stabilizzatori, gli equilibrati, coloro che vivono la vita con raziocinio e coscienza sempre attivi.”

“Sono dei poveri illusi chiaramente, perché è quasi sempre l’ignoto a guidarci, bel libro Fede, mi è davvero piaciuto”.

E voi? Li conoscete i perturbanti?

Fedy_Under_The_Rain

Due chiacchiere e un caffè.

” Te lo dico in tutta onestà, più ci penso e più mi rendo conto che facevo un lavoro di merda, nella mia vita ne ho cambiati diversi, facendone di ogni durante gli anni universitari. Nessuno era avvilente, frustrante, demotivante come quello, ad un certo punto mi ero anche convinta di aver preso quel posto di lavoro come sfida personale, sai bene che non amo perdere o essere sconfitta da qualche evento, quindi mi dicevo, NO NO VAI AVANTI NON PUOI MOLLARE, HANNO DATO QUESTO RUOLO A TE, SIGNIFICA CHE CREDONO NELLE TUE CAPACITA’. Ma quante cazzate mi pompavo nella testa”.

“Quini pensi sia questo il motivo per cui non hai mollato prima? Voglio dire sei rimasta li diversi anni, alla lunga un lavoro così logora no?”

“Assolutamente si, anzi ti dirò, se non fosse stato per quello stronzo, falso e arrogante che mi ha letteralmente rubato il ruolo, facendomi diventare un surrogato di sua assistente, molto probabilmente sarei rimasta ancora ed ancora, Se dovessi incontrarlo di nuovo, cosa che mi auguro non capiti mai, dopo una scarica di parolacce, alla fine concluderei con un grazie, non lo mangi quello? Posso?”

“Certo certo, finiscilo pure, ma fammi capire, cos’era che ti ha tenuto li tutti quegli anni? Non trovavi altro lavoro?”

“No no anzi, c’erano giornate in cui, presa dallo sconforto, cercavo un’alternativa, e sai cosa? Ho fatto un paio di colloqui ma il fatto è che io mi alzavo tutte le mattine sorridente e felice, era un lavoraccio si, ma io in quell’ufficio avevo trovato l’oro. Non so fino a che punto riesco a spiegarti a parole cos’eravamo noi, davvero che merce rara. Parlando personalmente l’80% del lavoro lo fanno i colleghi, ed eccoci arrivati al nodo della questione, sono stati loro la mia ancora di salvezza.”

—– “Vi porto altro ragazze?” ——.

“Per me no grazie” – “Anche io a posto così, ci porti il conto per favore?”

“Ok i colleghi li hanno tutti più o meno, ma avresti potuto trovarne altri validi in qualsiasi altro posto no?”

“Dici? Io non credo. Io arrivavo presto in ufficio e ognuno di noi aveva una particolarità che alle 8 del mattino era già stampata in faccia, c’era lui, appena arrivato, con i postumi di un campari in più della sera prima, nonostante fosse solo martedì, sorrideva e mi raccontava: si si dico sempre questo è l’ultimo, invece alla fine arrivi a casa spaccato in due, che hai perso il conto di quanti ne hai bevuti! Ma io sono uno di compagnia lo sai! Se c’è da bere si beve. Poi c’era l’altro che arrivava stanco, occhio rosso e appesantito, ho bisogno subito di un caffè diceva, si perché aveva perso il conto delle notte insonni con il suo bambino. Prendere il caffè con lui era una delle mie cose preferite, ci raccontavamo le novità e ridavamo insieme di quello che era successo il giorno prima al lavoro con quei colleghi che amavamo decisamente poco. Poi arrivava uno degli ultimi, in ritardo ed arrabbiato perché la sera prima giocando a beach la caviglia aveva dato ancora problemi, e le sue performance o erano perfette oppure non avevano senso di essere. Su uno dei tavoli in ufficio c’era sempre un vassoio di brioches perché il più mattiniero di noi ce le portava, e ne mangiava almeno due. Quando qualcosa andava particolarmente male e me lo si leggeva in faccia, ecco arrivare una notifica che diceva: ti vedo male oggi, tutto ok? Potrei perdere una giornata raccontandoti un briciolo di ognuno di loro. Eravamo proprio sincronizzati, dove non arrivavo io c’era uno di loro e viceversa, ogni giorno avevo computer e telefono intasato di cose da fare e già alle 8.10 del mattino la pressione alle stelle. Ogni mail, chiamata o rottura di palle necessitava del supporto di qualcuno di loro, e io avevo imparato a chi chiedere aiuto in base alla richiesta che arrivava. Mi sentivo in una giungla, piena di sorprese e animali feroci, ma noi eravamo una squadra, nessuno affondava o veniva attaccato, perché il branco ci proteggeva. Eravamo insieme. E quanto si rideva.. tantissimo, ci divertivamo con poco, un po’ per non soffocare dentro quel vortice di lavoro malsano che si era creato, un po’ perché il nostro feeling era speciale. Non passava giorno in cui non fossi grata per quelle persone, per quelle anime passate li e fermatesi. Sarà che eravamo più o meno tutti della stessa età, puliti, senza mire di rivalsa o scalate sulle teste degli altri…”

“Beh no questo no, perché se lui non ti avesse pestato i piedi scavalcandoti..”

“Certo si, una mela marcia c’era, marcissima, mi spiace averlo vissuto sulla mia pelle, ma ci sta eh? voglio dire, valeva la pena disilludersi da quell’isola felice in cui mi trovato, discostando la mia attenzione dal lavoro che mi stava mangiando, se no sarei ancora la!!”

“Poi? sarà stata dura ripartire da un’altra parte immagino”

“Tantissimo, staccarmi da loro, quelli buoni chiaramente, è stato quasi come crimpare un cordone ombelicale, ho pianto tantissimo, non mi sono mai capacitata della fine di quel periodo, nonostante tutta la mia vita, non solo quella lavorativa ne abbia giovato. Cioè cambiare lavoro è stata la cosa più salutare fatta negli ultimi anni, ma questo non toglie l’amore che avevo verso quelle persone, amici, si li chiamo amici perché quello erano. Mi sento di essermi portata via un pezzetto di ognuno, e viceversa. Alla fine poi il tempo ha messo al suo posto ogni cosa, eravamo speciali insieme, ma l’avidità sgretola. Ci siamo spostati tutti, o quasi, non credo gli ultimi tardino molto a fare lo stesso, si è pur sempre creata una ferita che non si sta cicatrizzando, e la necessità di aria fresca è arrivata per ognuno di noi”

“Offro io, se no paghi sempre tu.. dai per favore”

“Figurati, è da un’ora che parlo e che mi ascolti, il minimo è pagarti la colazione!”

“Insomma quindi alla fine hai capito che doveva andare così?”

“Ma non so dirti che morale estrapolare da questa esperienza di vita, certo una cosa l’ho imparata, eravamo un caso raro, quindi non ho più lasciato nessun collega, arrivato dopo, avvicinarsi così tanto a me, nonostante abbia metabolizzato che è stato un passaggio della vita, la sofferenza per quella rottura, per quello strappo, è stata fortissima”

“Beh mai dire mai, magari troverai altri colleghi con cui condividere la vita allo stesso modo”

“No ma non fraintendermi, i colleghi attuali che ho sono fantastici, collaborativi, simpatici, ma sono colleghi capisci cosa voglio dire? Non mischierò mai più le cose. Non ne vale la pena. Per loro era diverso, per loro ne è valsa la pena, non capitano tutti i giorni persone così. Anzi, persone così non capitano, sono li per un motivo.”

“Non ci credo, ti vengono ancora gli occhi lucidi?! Dopo quanto? 4-5 anni?” – “Dovevano essere speciali davvero”.

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(Racconti e quattro chiacchiere)

Conformarsi, anche solo in apparenza.

Potevo essere tante cose nella vita, pensiero comune a tanti credo. La mia vita ben incanalata nelle attività comuni, ha però questo aspetto goliardico direi del voler scrivere “cose”. Storia ormai nota la mia, letta e riletta, in tantissimi libri di VERI SCRITTORI, chi fa il cassiere, il fioraio, il panettiere, l’operaio, che allo stesso tempo, impronta e mette le basi per la sua vera passione, scrivere. Per farlo ci sono vari passaggi comandati ai quali mi sto attenendo scrupolosamente:

  • leggere, sempre, tutto: dalla ricetta della panna cotta, al quotidiano di provincia, fino ai libri sul Bosone di Higgs, perchè mi hanno sempre insegnato che leggere solo ciò che ci piace, non può arricchirci degli stessi contenuti di ciò che spesso non ci appartiene,
  • studiare: ho investito, sto investendo ed investirò sempre tanto tempo per la mia “formazione” come scrittrice. Possiamo anche possedere un talento, ma se non impariamo a coltivarlo, potrebbe anche non fiorire mai. Pensiamo ad Harry Potter, se non avesse studiato, come avrebbe potuto imparare a gestire tutta quella magia ereditata dai genitori?!
  • scrivere: e in questa attività ci voglio includere varie forme di scrittura; quella personale sotto forma di articoli, qui contenuta all’interno del blog; pagine e pagine di racconti, romanzi, poesie che un giorno dovrò decidermi a sottoporre ad occhi diversi dai miei; ma anche la scrittura conto terzi, ossia “lo scrivere per”. Ecco oggi sarà proprio su questo ultimo punto che voglio soffermarmi, il lavoro di “stage formativo”, o la più comune gavetta.

Uno scrittore non praticante deve imparare fin da subito che dovrà prestarsi a praticare per terzi per adempiere alla sua parte di formazione, accettando critiche e scendendo sempre a compromessi. Scrivere romanzi o libri che possano vendere milioni di copie dovrebbe essere il mio obiettivo finale, e lo è, ma credo, in tutta onestà, che uno scrittore possa definirsi tale, quando riesce a giocare così bene con le parole da poter intavolare un qualsiasi argomento con la padronanza di chi ne conosce ogni aspetto.

Il mondo della scrittura è fatto di domanda e offerta come qualsiasi campo. Chi domanda chiede un pezzo di tot battute da inserire in un giornaletto locale, un sito di vendita diretta, un depliant informativo, una brochure promozionale; chi offre deve riuscire a produrre il testo nel mondo più accattivante possibile, strizzando le parole nello spazio limite consentito, per poi attendere il verdetto finale.

L’aspetto più difficile di tutto questo lavoro, dopo il riuscire a farsi pagare in modo onesto, è quello di accettare le critiche, almeno per me. Mi sono ritrovata spesso a scrivere di tematiche che sentivo mie, lasciando trasparire quel livello emozionale che va oltre il consentito, ricevendo sempre indietro il lavoro perché troppo articolato, altre volte ho dovuto apportare modifiche a quello che il mio flusso di pensieri voleva esprimere. “Questa frase non può piacere, trova un modo più polite per dirlo”, oppure “il tema è quello giusto, ma bisogna sistemare tutto il contorno”; non so se riesco a spiegare come diventa difficile per me strappare quella parte così mia e personale dal foglio, per poter scrivere quello che viene richiesto e comandato sulla base di battute, spazi e contenuti.

Mi sto lamentando di come il mercato mi richieda di uniformare la mia scrittura alla massa generale, so bene che se voglio scrivere devo anche sapere fare questo, abbassare la testa e decidere di farmi violenza per oltrepassare il confine. Mi sto lamentando degli effetti che ha su di me la critica esterna; considero la scrittura un atto fatto di anima, scrivere è come vivere in una dimensione parallela; com’è possibile che qualcuno possa, in maniera obiettiva e neutrale, giudicare qualcosa che viene da così lontano e profondo? Ecco questi sono scogli, ostacoli insormontabili per me.

Quando scrivo sento l’adrenalina scorrere veloce nelle vene come se stessi vivendo momenti indimenticabili e intimi che solo io posso sentire. Riportare ogni singola parola su un foglio, sapendo che poi dovrò rimettermi a qualcuno che in quel momento sta bevendo un caffè alla scrivania, annoiato dal mondo e dal numero di paginette che ogni giorno riceve, pronto a sbuffare di fronte all’ennesima composizione scritta che chiede una possibilità, è davvero avvilente e frustrante.

I miei lavori contengono sempre una parte autobiografica, che sia un momento o un sentimento, vederli bocciati è un po’ come se fossi io ad essere respinta da quel mondo, sapendo che se mi fossi obbligata ad essere più o meno di così avrei potuto fare il passo oltre.

Oggi il mio lamento è così, confusionale, come il mio animo, i miei capelli e i miei occhi. Zero formule magiche per la conclusione o la scelta di direzione, l’unica certezza è che scrivere resterà sempre la mia vendetta verso un mondo che mi ha troppo spesso bocciato per il mio mancato conformismo.

“Non c’è ferro che possa trafiggere il cuore con più forza di un punto messo al posto giusto” – (Isaak Babel’, Guy de Maupassant, 1932)

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L’inquietudine dello scrittore.

Vivo giornate lisce, come se lo specchio d’acqua in cui mi trovo non sentisse un filo di vento, placido e silenzioso. Sono le mie preferite, accompagnate da luce e serenità.

Bellissima questa pace, ma sono grata alla vita per avermi regalato la sensazione di trepidazione e batticuore che a tratti passa a trovarmi. Ho scoperto il suo nome da poco, dopo aver letto un libro di Carver, che entrerà con tutti i meriti del caso a far parte dei miei preferiti, un vademecum per me. Non sapevo che nome dare al mio bisogno di mettere sul foglio le parole, di incastrarle in un perimetro definito, un bel recinto che possa tenerle a bada togliendole dalla mia anima. Dopo aver letto quel libro ho capito che un nome ce l’ha, si chiama inquietudine, ed è il mio flusso, il mio istinto, il mio nero su bianco.

L’inquietudine vive con me da quando sono nata, questo è certo, le sono stati dati i nomi più svariati, talvolta mi hanno intimato ad abbandonarla, io stessa ho fatto il possibile. Sono contenta che il tempo e la vita mi abbiano fatto capire come una caratteristica così preziosa non sia da perdere, senza non sarei io, l’inquietudine è il mio talento, lasciarla parlare è la mia cura più grande.

L’inquietudine è quella forza che mi traina verso una meta, perché sento di potermi chiamare completa solo quando ci arriverò. Una volta arrivata, farò l’ennesimo grande respiro perché ancora non sentirò quella completezza che speravo, quindi dovrò proseguire.

L’inquietudine è quella sete che mi porta ad essere più svelta per arrivare alla fontana prima degli altri.

L’inquietudine non mi da pace, ci sono giorni in cui è sopita altri in cui mi infuoca l’anima e vuole uscire, deve.

La medicina mi chiama “soggetto affetto da attacchi di panico”, io mi definisco un personaggio inquieto che vuole scrivere i suoi stati d’animo. Senza questo impeto ci sarebbe il “non moto”, quindi il fermo, la sedentarietà, la morte.

Mi spavento quando rileggo quello ho scritto nel mood “inquieta”, quando le lascio la libertà di esprimersi. La mia inquietudine comunica così. Abbiamo concordato insieme, io e lei, di supportarci e prendere aria ad intervalli, il mio corpo è la nostra casa, alcuni momenti io esco per lasciarle campo libero, alle volte invece sono io che mi godo “la casa” in solitudine senza la sua presenza. Fondamentale sempre è la buona convivenza.

No non c’è pazzia in quello che sto dicendo, semplicemente quando scrivo tolgo il freno e lascio che sia lei a guidare. Le prime volte non mi fidavo, ora si, la mia inquietudine ha bisogno di me e io di lei, non mi farebbe mai del male.

Gli scrittori, e tra questi mi ci metto anch’io, si devono spostare in un’altra dimensione quando scrivono, io la definisco “anima”, per spiegarla in parole povere, direi una dimensione dove la ragione non può dettare legge o stabilire regole. Potrebbe far paura, si potrebbe, ma la mente è un congegno così intricato che è impossibile entrare senza spaventarsi, i vicoli ciechi sono sparsi ovunque.

Non tutto quello che scrivo richiede la presenza della mia amica inquietudine, ci sono momenti in cui è richiesta la logica e la ragione, altri in cui devo ricoprire il ruolo di scrittrice informativa, il punto in comune in ogni forma di scrittura io scelga è la parola, una dopo l’altra, vanno depositate sul foglio e hanno la capacità di variare la sensazione del lettore nel percepire quello che io sto trasmettendo. Non è bellissimo? La comunicazione di emozioni, una qualsiasi parola buttata su un foglio, potrebbe essere completamente spenta per un soggetto, e dare un brivido per un altro, tutto dipende dall’anima.

Ho necessità di scrivere ogni tanto questo tipo di narrazione, come se dovessi spiegare il lavoro che sto facendo, per giustificare alcuni miei lati troppo ermetici. Scrivere richiede il coinvolgimento di personaggi creati ed inventati, di mondi, situazioni, emozioni, parliamo di un grandissimo lavoro, troppe personalità che si incontrano e scontrano, sarebbe impossibile mantenere la lucidità mentre lo si fa, anzi sarebbe controproducente.

Il numero di pagine che ho scritto in ogni quaderno, libro o foglio sono veramente infinite, devo decidermi a fare il passo, ma la mia inquietudine non è ancora pronta per un giudizio. Lei, come la maggior parte delle emozioni, non può accettare di essere studiata ed esaminata.

Quello che non conosciamo o non riconosciamo come “normale” solitamente tende a far paura, alle volte i mostri più grandi siamo noi con i capelli in ordine e il trucco perfetto.

L’inquietudine è il mio personaggio preferito.

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Lettera a mia figlia

Cari lettori, questa è una lettera molto personale per la mia bambina che, quando sarà grande, potrà leggere i nostri primi mesi di vita insieme per capire quanto bene mi ha fatto. Il coraggio è donna, ed è proprio grazie a lei se ho deciso di farvi entrare nei miei pensieri. Buona lettura.

Sabato 09 maggio, 2020

Ho pensato spesso in questi giorni al momento in cui sarai in grado di entrare nel blog della mamma e leggere quello che ha scritto (e che spero stia ancora scrivendo). Mi sono immaginata quante domande potresti farti, pensando al perchè ho intrapreso una strada così lontana dalla realtà che vivo, sognando ancora all’età di 36 anni di scrivere pagine e pagine per lasciarmi leggere da chi passa di qui. In queste lunghe righe vorrei spiegarti cosa mi ha portato ad avere il coraggio di scrivere pubblicamente tutti i pensieri che popolano la mia testa. Mi è sempre piaciuto scrivere, l’ho fatto per anni, su quaderni sparsi in tutta la mia cameretta, scrivevo racconti, favole, ricordi, mettendo all’interno estratti della mia vita per potermene in un certo senso liberare. Sono sempre stata schiava di giudizi e pregiudizi, condizionandomi a tal punto da non pensare neanche lontanamente di poter coltivare questa passione, perchè era troppo per me, io non mi sono mai sentita capace.

Il piacere per la scrittura vive da sempre nel mio sentire, nella mia anima, per anni ho imparato a soffocarlo perchè “sono una donna qualsiasi, nata in un paesino qualsiasi destinata ad una vita normale in cui ci si concentra sul lavoro, la spesa, il mutuo, le bollette ecc.. la vita da sognatrice non porta di certo la cena in tavola”. Sono nata donna, il mondo mi ha insegnato che i sogni vanno sacrificati, e che sono gli uomini a doversi realizzare, noi possiamo anche non farlo.

Ho iniziato i nove mesi in tua attesa in preda al niente, col pensiero fisso di non aver concluso nulla di buono nella vita e non riuscivo a capire come avrei potuto essere la tua mamma. Sono sempre stata così sfiduciata nelle mie capacità, mi sono sempre svalorizzata a tal punto che a un colloquio di lavoro ricordo il titolare che mi chiese “Ti va bene la paga base di 1.000 euro?” e io ho risposto: “al momento mi andrebbero bene anche 900 euro dato che non prendo lo stipendio da mesi”, niente quindi sono stata assunta con paga base da 900 euro (mi raccomando fatti valere Fede). Così sicura di sbagliare sempre tutto che quando io e il tuo papà abbiamo pensato ad avere un bambino io mi sono detta: “proviamo tanto figuriamoci se riesco a concepire”. Ho passato una soffertenza così forte in passato che veramente pensavo non mi fosse mai concessa “la grazia” di essere mamma.

Invece esattamente dopo una settimana ho iniziato a vomitare. Possibile che ci fosse da qualche parte un’anima buona per me? Possibile che ci fosse una bambina che non aspettava altro che venire a farmi compagnia? Ero talmente sorpresa dal fatto che tutto fosse funzionato così bene che, fino al terzo mese, non avevo neanche capito che di li a breve due occhi grandi e luminosi mi avrebbero guardato. Ecco i primi pianti, perchè nella mia testa ti eri sbagliata, come poteva essere che avessi scelto me? Una persona senza infamia e senza gloria, con un sogno in un cassetto chiuso per mancanza di fiducia in se stessa, che ha dato più importanza alla concretezza e alla superficialità della vita piuttosto che la valorizzazione, cosa potevo insegnarti? Quando ho scoperto che eri una bambina, mi sono esaminata a fondo, quante volte la cattiveria dell’uomo mi ha marchiato la pelle, trasformandomi in una persona falsa al bisogno, preferendo rapporti brevi e poco impegnativi per non disturbare le mie abitudini, che futuro ti aspettava?  Ho pianto tanto perchè non sapevo come ricambiare la tua fiducia nell’avermi scelto, ti immaginavo da grande.. pentita della mamma che ti eri trovata.

In questo piccolo sogno che vivevo non ho mai avuto la presunzione di chiamarmi scrittrice, nonostante questo, ho speso tempo e soldi per fare dei corsi che potessero darmi un titolo, pensando che solo con la carta e l’attestato nessuno mi avrebbe riso in faccia. La verità è che so di avere un piccolo dono tra le dita quando scrivo, è la mia cura, la mia terapia. Qualcuno del settore mi ha detto qualche giorno fa: “hai un talento nello scrivere, questo è fuori discussione ma lo fai ancora in maniera troppo umana”. Lo so, l’ho sempre saputo, qualche anno fa ho partecipato ad un corso per migliorare questo “difetto” ma la conclusione è stata pessima. Ho speso soldi per diventare più sterile nello scrivere, ma io non scrivo per vendere o promuovere articoli, lo faccio per passione e la passione non è forse uno degli aspetti umani più imperfetti e appaganti? E’ proprio questa umanità che fa mia la scrittura che scelgo di usare.

Finiti i nove mesi qualcosa è cambiato, sei arrivata in punta di piedi, senza fare rumore, sembrava quasi volessi disturbarmi poco per lasciarmi dormire. Nonostante la tua fame e il tuo bisogno di contatto le tue carezze erano più sicure e decise di quelle che ti facevo io. Le mie innumerevoli imperfezioni mi facevano sentire sempre meno adatta ad essere la tua mamma, ma tu non mi mollavi mai, ogni giorno mi cercavi sempre di più e finalmente ho capito che tu eri arrivata per togliermi quei pregiudizi e darmi quell’autostima che negli anni mi hanno tolto di dosso, tu volevi proprio me.

La persona più cattiva, esigente e severa con me stessa sono sempre stata io, e dovevi arrivare tu per aiutarmi ad aprire i libri scritti negli anni, perchè posso essere “capace” anche io di fare qualcosa. Avevo paura a mostrare agli altri quello che mi piaceva fare, quel pensiero ricorrente del “non ce la faccio”. Se ho deciso di mostrare al mondo il mio lato nascosto è perchè mi hai fatto vedere come non sia necessaria la perfezione nelle cose che amiamo fare, la passione che ci mettiamo le rende uniche e umane. Tutti questi pensieri liberi di uscire sono mossi da qualcosa che brucia dentro ogni volta che prendo in mano carta e penna, sei tu Fiamma, voglio fare qualcosa di buono per te.

Ecco, per citare il signor “esperto nel settore” questo è uno degli “articoli” più umani mai letti, emotivo, passionale, è mio. Purtroppo bambina mia nella vita non si mangia con i sogni, questo la tua mamma lo sa bene, mi hanno insegnato ad essere concreta, lavorare studiare, fare test, corsi, sbattermi per avere qualcosa per poi arrivare alla fine con una mancanza soltanto: il coraggio. Seguire i propri sogni è quello che ci tiene vivi, anche se non è detto che ci si possa pagare il mutuo, ciò non toglie che un’ora alla sera tu non possa alimentare quel sogno con la passione che ti contraddistingue. Per troppo tempo sono rimasta spenta per paura di giudizi che hanno perso tutti i significati appena ti ho visto, il tuo nome è la luce che mi guida a casa. Fiamma.

“Lights will guide you home and ignite your bones and I will try to fix you” – Coldplay 2005

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